L’Europa così è in declino. Solo smettendo di complicarci la vita da soli risolveremo i nostri problemi
La Rubrica - Pubblico & Privato
Venticinque anni fa, con la Strategia di Lisbona, le istituzioni europee si erano prefissate l’obiettivo di rendere l’Unione Europea, entro il 2010, l’economia più competitiva e dinamica del mondo. Qualche giorno fa, Volkswagen, uno dei simboli dell’industria tedesca ed europea, nonché della ricostruzione del nostro continente dopo il tragico periodo della guerra, ha annunciato di essere in gravissima difficoltà, ipotizzando la chiusura di stabilimenti anche in Germania e decine di migliaia di esuberi. Una prospettiva, fino a poco tempo fa, impensabile.
Il principale costruttore europeo di automobili, un tempo vanto della nostra industria, non riesce più a competere con la concorrenza dei produttori locali in Asia, suo principale mercato di sbocco. I produttori cinesi, infatti, oggi riescono a realizzare non solo prodotti a prezzi decisamente inferiori rispetto a quelli europei, cosa non nuova, ma anche con una qualità sempre più simile a quella europea.
Questa situazione, purtroppo, non riguarda solo l’industria automobilistica, ma si sta verificando in numerosi altri settori industriali. In alcuni segmenti critici, come quello dei semiconduttori, siamo rimasti particolarmente indietro. Mario Draghi, nel suo recente rapporto sulla competitività europea, ha affermato che, in assenza di interventi decisi, l'Europa è destinata a un lento declino.
Nel 2010 il reddito pro capite medio negli Stati Uniti era superiore del 31% rispetto a quello europeo. Oggi è del 37% più alto. La distanza, anziché diminuire, è aumentata. Nello stesso periodo, la Cina, che partiva da un reddito pari al 23% di quello americano, è arrivata al 41%.
Alla luce di questi dati, si potrebbe affermare che l’Europa e le sue istituzioni abbiano fallito, almeno finora, nel tentativo di rendere la nostra economia la più dinamica e competitiva al mondo. È significativo che una figura di spicco dell’establishment europeo come Mario Draghi, protagonista delle politiche europee degli ultimi decenni, abbia preso una posizione così netta sulla necessità di un cambiamento.
C’è da augurarsi che questo porti a una riflessione critica e costruttiva su quanto fatto finora e sugli errori commessi, oltre che, auspicabilmente, a un cambio di rotta. Draghi ha proposto un imponente piano di investimenti finanziato congiuntamente dagli Stati europei. Potrebbe essere una soluzione, ma il rischio è che, senza un cambiamento di approccio da parte delle istituzioni europee, l’immissione di ulteriori risorse finisca per moltiplicare programmi pubblici disegnati a Bruxelles in modo autoreferenziale, che scaricano burocrazia e obblighi sui cittadini e sulle imprese europee.
Come hanno sottolineato Draghi e numerosi studi della stessa Commissione Europea, la burocrazia danneggia soprattutto le piccole e medie imprese, non le grandi. Negli ultimi anni l’Europa ha prodotto quasi il doppio delle normative rispetto agli Stati Uniti. In molti casi, queste regole non sono state coordinate tra loro e presentano sovrapposizioni e incoerenze.
Un esempio è rappresentato dal settore dell’auto elettrica: si è preteso un cambiamento drastico nella tecnologia automobilistica senza un adeguato adattamento nella produzione di energia. Il risultato sarebbe che, anche se raggiungessimo l'obiettivo di migrare tutte le nostre auto all’elettrico dal 2035, continueremmo comunque a bruciare petrolio per generare l’energia necessaria, rendendo lo sforzo vano.
L’Europa ha imposto standard sempre più elevati alle imprese europee, senza preoccuparsi troppo dei costi di tali decisioni, mentre permette a chi produce al di fuori dell’Europa di esportare i propri prodotti da noi, senza sottostare alle stesse regole. Questa è una ricetta per deindustrializzare l’Europa e, in ultima analisi, impoverire i suoi cittadini. I nodi, come nel caso di Volkswagen, stanno venendo al pettine.
Prima di investire ulteriori ingenti risorse, è necessario smettere di complicare la vita delle nostre imprese, pretendendo di guidarle verso un futuro radioso individuato da funzionari pubblici, ma non testato dal mercato. Occorre inoltre abbandonare l’illusione di poter avere standard molto diversi da quelli dei nostri concorrenti internazionali e, contemporaneamente, frontiere completamente aperte. Altrimenti, saranno solo soldi sprecati e maggiori debiti per i nostri figli e nipoti.