Sul caos di Acciaierie d'Italia, l'ombra dell'Europa verde
Sempre più difficile investire nella siderurgia a causa dei costi dell'energia e della decarbonizzazione. Torna l'ipotesi Arvedi
L’ultimo capitolo della lunga telenovela sull’ex-Ilva, ora Acciaierie d’Italia, è drammatico ma ha almeno un pregio: ha tolto definitivamente il velo sulle reali strategie della multinazionale ArcelorMittal (AM), che evidentemente non ha alcuna intenzione di investire nello stabilimento di Taranto (uno dei più grandi d’Europa), acquistato, questo è il sospetto, solo per eliminare un concorrente.
L’epilogo è avvenuto lunedì 8 gennaio, quando al termine dell'incontro a Palazzo Chigi tra i vertici della multinazionale e il governo, quest’ultimo ha reso nota "l'indisponibilità" di AM ad assumere impegni "finanziari e di investimento nemmeno come socio di minoranza". La riunione era stata organizzata per dare il via libera ad un aumento da 320 milioni di euro, con cui l'esecutivo si proponeva di portare lo Stato al 66% del gruppo siderurgico tramite Invitalia. Operazione necessaria per garantire la continuità produttiva.
Pochi investimenti
Invece AM ha risposto picche, sostenendo di aver già investito parecchio nello stabilimento. Ma la situazione, secondo i sindacati, è ben diversa: “Da molti anni” ha commentato il segretario generale Uilm, Rocco Palombella “denunciamo il dramma che stanno sopportando migliaia di lavoratori e intere comunità: livelli produttivi ai minimi termini, mancanza di investimenti sugli impianti e di sicurezza, migliaia di lavoratori in cassa integrazione, interi territori maltrattati da una gestione arrogante e fallimentare. Adesso ci aspettiamo dal governo una assunzione di responsabilità adeguata alla gravità della situazione”.
I nomi più gettonati
È probabile che il governo utilizzi lo strumento del commissariamento per poi cercare un partner privato. I nomi più gettonati, come al solito, sono quelli di Arvedi e di Marcegaglia, che già nel 2016 si erano fatti avanti per entrare nell’ex-Ilva, il primo in cordata con Del Vecchio e Cdp, il secondo con la stessa AM.
Arvedi ha la forza per entrare a Taranto: è diventato più grande della ex-Ilva dopo aver acquisito nel 2022 il controllo di Acciai Speciali Terni da ThyssenKrupp. Nel 2022 il gruppo siderurgico cremonese ha realizzato ricavi per 7 miliardi e 756 milioni e un risultato netto di 640 milioni. Arvedi ha sicuramente le capacità per rilanciare Acciaierie d’Italia e avviarla in un percorso di decarbonizzazione, come richiesto dalle norme europee. Ma non è detto che voglia impelagarsi in una situazione complessa come quella di Taranto: gli impianti devono essere dissequestrati dalla magistratura mentre è probabile che si apra un contenzioso legale tra Stato e AM.
Interesse Arvedi-Marcegaglia
È circolata anche l’indiscrezione di un interesse congiunto Arvedi-Marcegaglia. Quest’ultimo gruppo però ha appena concluso una grossa operazione: circa un anno fa ha acquisito il 100% della divisione prodotti lunghi in acciaio inox della multinazionale finlandese Outokumpu per 228 milioni di euro. Il gruppo mantovano ha realizzato così “la più grande acquisizione fatta finora nella nostra storia” come hanno dichiarato Antonio ed Emma Marcegaglia, presidente e vicepresidente del gruppo. “È un’operazione che ci consente di realizzare importanti sinergie industriali e di proseguire nel percorso di sviluppo di prodotti sempre più sostenibili e competitivi”. Non è detto quindi che Marcegaglia abbia interesse ad affrontare un’altra avventura complessa come quella di Taranto. Ma allo stesso tempo per Marcegaglia è importante che Acciaierie d’Italia non chiuda: di recente Emma Marcegaglia ha detto che “noi siamo i più grandi clienti di Acciaierie d’Italia. Per noi, ma per tutto il Paese, l’acciaio è fondamentale. Perdere l’Ilva sarebbe follia”.
Green Deal
Ma perché il gruppo AM avrebbe comprato l’ex-Ilva per poi lasciarla languire? La risposta ha a che fare con la politica ambientale europea che impone una progressiva decarbonizzazione della produzione di acciaio. I beni fabbricati negli Stati del blocco europeo sono soggetti infatti al sistema di scambio di quote di emissioni, che fissa un prezzo sul carbonio emesso e rende più cari i prodotti come l’acciaio o il cemento. Una strategia che a lungo termine potrà anche pagare, ma che nel breve rende estremamente difficile la vita dei gruppi siderurgici in Europa, alla prese con costi dell’energia più alti e con la concorrenza dei cinesi. Già un paio di anni fa il gruppo AM, che è il più grande produttore siderurgico europeo, avvertiva che la decarbonizzazione delle sue operazioni sarebbe costata fino a 40 miliardi di euro.
Per proteggere le sue imprese, l’Europa ha varato l’ottobre scorso una tassa sulle importazioni legate al carbonio (Carbon border tax) che per ora impone a chi esporta in Europa di comunicare i relativi livelli di carbonio emesso. Solo a partire dal 2026 sono previsti i pagamenti effettivi della tassa, ma intanto i partner commerciali dell’Ue, a partire dalla Cina e dall’India, sono sul piede di guerra. E gruppi come AM hanno tutto l’interessa ad investire dove le regole sono meno severe e i costi più bassi, come gli Usa o il Sud America, invece che in Europa. E tantomeno a Taranto.