Fisco: cosa prevede per chi investe in Bitcoin e cripto valute
I consigli del nostro esperto per il contribuente che investe in Bitcoin: cose fare, cosa e quanto pagare (e cosa no)
Dopo un lungo periodo di bonaccia e di ribassi sulle quotazioni delle principali criptovalute, nei giorni scorsi si è avuta una repentina impennata delle quotazioni del Bitcoin, che ha superato la soglia dei 5 mila dollari, alla faccia dei molti detrattori delle valute virtuali.
Questa fiammata di rinnovato interesse da parte di investitori e risparmiatori è un’occasione propizia per fornire qualche utile indicazione al contribuente.
Che obblighi ha e cosa deve fare il contribuente che ha deciso di investire nell’acquisto di criptovalute (Bitcoin, Ethereum, Litecoin, etc.)? O nell’acquisto di token in una ICO (Initial Coin Offer, ossia una raccolta di risorse sotto forma di criptovalute, per la realizzazione di progetti tecnologici basati su blockchain)?
Il quadro normativo in Italia è ancora oggi pieno di incertezze, soprattutto sul fronte di obblighi ed adempimenti fiscali, oltre che degli obblighi antiriciclaggio e di trasparenza finanziaria.
Un’avvertenza: il mondo delle criptovalute è popolato di entusiastici sostenitori e livorosi detrattori.
Per chi fosse indotto a pensare che il fenomeno possa evaporare come una meteora è bene considerare che esso non si esaurisce nelle criptovalute, ma ruota intorno ad una tecnologia, quella della blockchain o DLT (Distributed Ledger Technology) in costante espansione su anche applicazioni che hanno poco o niente a che fare con le criptovalute e che interessano processi di validazione e di verifica in settori cruciali, come quello delle banche, delle assicurazioni, della logistica e persino della difesa, con investimenti miliardari da parte dei maggiori gruppi tecnologici e finanziari. Occorre anche non trascurare il fatto che la prima transazione in bitcoin è stata effettuata ai primi del 2009: sono passati già dieci anni e siamo ancora qui a parlarne.
Difficile credere, quindi, che tutto questo possa svanire nel volgere di un mattino.
Ed ora cerchiamo di capire in concreto cosa fare sul piano degli obblighi fiscali.
Parliamo del caso di investimento in criptovalute.
Il fisco italiano ha fornito alcune indicazioni, ma purtroppo sono tutt’altro che convincenti.
Vediamo cosa succede se il contribuente è un privato che, a titolo personale (quindi, non per professione) acquista, detiene ed eventualmente rivende delle criptovalute, guadagnandoci.
Siccome, come si è detto, mancano norme fiscali specifiche, occorre capire, prima di tutto, cosa sono o cosa possono essere considerate le criptovalute per la legge.
Cominciamo col dire che le criptovalute non sono valute in senso proprio. Nelle intenzioni di chi le ha create sono strumenti di pagamento. Lo sono anche le valute legali o tradizionali, è vero, ma ci sono enormi differenze.
Alle criptovalute mancano alcuni caratteri essenziali delle valute a corso legale: non sono emesse da una banca centrale, non sono sottoposte a forme di controllo o di vigilanza pubbliche e soprattutto, non hanno corso legale né valore liberatorio. Vuol dire che mentre un pagamento in euro deve essere obbligatoriamente accettato e libera automaticamente da un eventuale debito, nessuno è tenuto ad accettare un pagamento in criptovalute.
Lo scambio e la determinazione del valore di una criptovaluta, invece, regge solo sul consenso e sulla volontà negoziale di tutti i soggetti che decidono di scambiarla e di accettarla volontariamente come mezzo di pagamento.
Questo connotato non è solo il frutto di considerazioni di dottrina, ma è stato affermato anche dalla Corte di Giustizia UE, che in una sentenza di cruciale importanza ha stabilito che le cripto non sono assimilabili a valute “legali” ma vanno considerate come semplici mezzi di pagamento (Sent. Hedqvist, C-264/14, del 22.10.2015).
Anche la legge italiana si allineata a questo principio: la definizione di “valuta virtuale” introdotta dalle modifiche alla normativa antiriciclaggio (L. 231/2007) dice che si tratta di una “rappresentazione digitale di valore, non emessa da una banca centrale o da un'autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l'acquisto di beni e servizi e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”.
La conclusione è che le criptovalute, o valute virtuali, non possano essere assimilate alle valute a corso legale e questo ha importanti conseguenze sul piano dell’applicazione della normativa fiscale.
Purtroppo, però, il fisco italiano con due atti interpretativi (la risoluzione della Direz. Centr. AdE 72/E/2016 e la risposta ad interpello n. 956-39/2018 della Direz. Reg. Lombardia) si è mosso in senso opposto e ha affermato che, invece, le valute virtuali, ai fini fiscali, sarebbero da assimilare a valute estere.
Perciò, secondo l’Agenzia delle Entrate, il privato che matura plusvalenze (guadagni) sulle loro cessioni, dovrebbe pagarci le tasse come “redditi diversi” se sussistono due condizioni: (a) se sono frutto di contratti a termine; (b) se sono state detenute per più di sette giorni sul proprio conto per un controvalore medio superiore a € 51.645,69.
In questo caso l’entità della plusvalenza andrebbe calcolata, dice l’Agenzia delle Entrate, tenendo conto delle quotazioni sulle principali piattaforme web di scambio e conversione.
Non solo: secondo il fisco, se le criptovalute sono detenute su conti (intendendo come conti i c.d. “wallet”) presso piattaforme estere, occorrerebbe dichiararne il possesso nel famigerato “quadro RW” della dichiarazione dei redditi, pena l’applicazione di sanzioni salate e la presunzione che le somme siano frutto di evasione fiscale.
Questo ragionamento è estremamente discutibile per molte ragioni: innanzitutto perché si pone in contrasto con il principio opposto stabilito dalla Corte di Giustizia UE, secondo cui le cripto non sono assimilabili a valute “legali”. In secondo luogo i contratti normalmente utilizzati (detti CFD, Contract For Difference) non sono del tutto assimilabili ai contratti a termine che normalmente si stipulano con gli intermediari finanziari per le operazioni di trading convenzionali.
Non è tutto: per lo scambio delle criptovalute non esistono listini ufficiali pubblici di borsa. Le piattaforme sono private, ne compaiono e ne spariscono a decine. Perciò diventa impossibile determinare il controvalore delle criptovalute in modo oggettivo.
Infine, per ciò che riguarda gli obblighi di dichiarazione di fondi esteri sul quadro RW c’è un altro problema: i “wallet” non sono conti correnti. Non esiste un custode di fondi localizzato in un certo paese del mondo. Un wallet non è altro che un indirizzo virtuale univoco, come potrebbe esserlo un indirizzo di posta elettronica, a cui vengono associate su tutto il network della blockchain mondiale le criptovalute di proprietà del soggetto che è proprietario del wallet. Affermare che si possa assimilarli ad un conto estero è un bel salto, anche nel caso in cui si parli dei cosiddetti “custodial wallet”, cioè wallet che possono essere gestiti direttamente dalle piattaforme di trading.
Il peso di tutte queste incertezze viene scaricato sulle spalle del contribuente, oltre che dei professionisti chiamati a dare assistenza fiscale.
Che fare?
Innanzitutto occorre tenere presente che le interpretazioni fornite dall’Agenzia delle Entrate con risoluzioni e risposte ad interpello non hanno valore di legge e se sposano interpretazioni giuridicamente errate sarà possibile ottenere l’annullamento di eventuali atti di accertamento che si basino su questo tipo di interpretazioni eventualmente errate.
Nonostante questo, non si può non tenere conto dell’orientamento interpretativo dell’Agenzia delle Entrate, poiché ragionevolmente è a questo orientamento che si atterranno gli uffici nell’ambito di eventuali verifiche.
Le alternative possibili per il contribuente sono tre: la prima, accettare supinamente l’interpretazione del fisco e farsi carico di costi fiscali discutibili. La seconda, non adeguarsi alle indicazioni del fisco ed esporsi al rischio di accertamenti e sanzioni, preparandosi a ricorrere al Giudice tributario per ottenerne l’annullamento.
C’è però anche una terza alternativa: quella di adeguarsi alle indicazioni dell’Agenzia delle entrate, dichiarando tutto quello che suggerisce nei suoi atti interpretativi e quindi versando anche quei tributi che potrebbero non essere dovuti.
In questo caso, successivamente il contribuente può presentare una richiesta di rimborso circostanziata e motivata sui principi stabiliti dalla Corte UE.
Se il fisco accoglie la richiesta di rimborso, bene: il contribuente avrà risolto il problema senza esporsi al rischio di sanzioni, verifiche, etc.
In caso di diniego o di mancata risposta, rimane la possibilità di ricorrere alla Commissione tributaria.
Il che potrebbe essere una buona occasione per provocare un precedente, molto utile in un panorama così confuso.
Parliamo ora di quello che accade per gli operatori professionali (exchange, piattaforme di servizi di pagamento, etc.).
Qui la situazione è un po’ più semplice perché grazie alla sentenza Hedqvist della Corte di Giustizia UE, abbiamo indicazioni molto più chiare e stringenti.
In questo caso, come ha precisato la Corte, l’operatore è tenuto a dichiarare i redditi (e a pagare la relativa imposta) maturati in virtù dei corrispettivi dei servizi erogati (commissioni per le attività di cambiavalute, canoni dei vari servizi, etc.), sulla base delle disposizioni vigenti nel paese membro in cui tali redditi vengono conseguiti, in quanto l’attività svolta si configura come la prestazione di servizi a titolo oneroso.
Sul versante dell’IVA, invece, secondo la Corte, poiché le criptovalute sono qualificabili come mezzi di pagamento, sebbene tali servizi siano in generale rilevanti ai fini IVA, ricadono all’interno di uno specifico caso di esenzione IVA, previsto dall’art. 135, paragrafo 1, lett. e), della Direttiva 2006/112 in materia di IVA.
Quindi, imposta sui redditi sì, IVA no.
Per info: lucianoquarta.it
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