Francesco Giavazzi: vi racconto la mia spending review, bloccata dai dirigenti ministeriali
L’economista Francesco Giavazzi, un anno fa, aveva scritto per l’ex premier Mario Monti un rapporto per ridurre di oltre 10 miliardi i contributi alle imprese: piaceva a tutti, però finì in un cassetto grazie all’opposizione dei grandi burocrati. Oggi dice che servono tagli per 50 miliardi. Ma che sarà meno difficile.
Pochi economisti di scuola liberale possono dire di aver guardato negli occhi i nemici dei tagli alla spesa pubblica italiana come il bocconiano Francesco Giavazzi. Lo scorso anno fu convocato a Palazzo Chigi dall’allora presidente del Consiglio Mario Monti, già suo rettore all’università, che gli chiese un piano per disboscare i contributi alle imprese da destinare a riduzione della pressione fiscale. Giavazzi si mise al lavoro e in meno di 2 mesi consegnò la sua proposta shock: eliminare almeno 10 dei 30 miliardi di euro spesi ogni anno in questo modo.
L’idea non suscitò la minima resistenza da parte della Confindustria, felice di scambiare i vantaggi di alcuni con un abbassamento delle aliquote fiscali per tutti. Eppure, nei 12 mesi successivi quel documento è rimasto nel cassetto in cui lo chiuse l’ex presidente del Consiglio e da cui ora, con una svolta sorprendente, si parla nuovamente di farlo uscire. Che cosa succede? «Pare che di fronte alla necessità impellente di trovare nuove risorse» spiega Giavazzi a Panorama «il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni voglia riprendere in mano la nostra cartellina, insieme con quella sui possibili tagli alle detrazioni preparata nella scorsa legislatura dall’ex sottosegretario all’Economia Vieri Ceriani. Speriamo sia la volta buona».
Partiamo proprio dalla vicenda, mai ben chiarita, del suo dossier. Che cosa accadde quando lei lo consegnò al governo?
È una storia che si può dividere in due capitoli. Il primo si concluse il 20 giugno 2012, quando io e gli altri due economisti con cui avevo lavorato illustrammo il rapporto al governo. I ministri si dissero soddisfatti e tutto sembrava andare per il meglio. Di conseguenza mi aspettavo che l’esecutivo facesse proprio il nostro documento e cominciasse a prendere provvedimenti per la sua attuazione. Invece il presidente del Consiglio disse che nei giorni successivi avremmo dovuto avviare la concertazione con le strutture dei diversi ministeri. Fu un errore. Capii ben presto che il destino del nostro lavoro era segnato.
Sta dicendo che ad affossare il suo rapporto non furono le resistenze dei ministri, ma i funzionari dei ministeri?
Sì. Soprattutto quelli dello Sviluppo economico, cui spetta la responsabilità della distribuzione dei fondi. I dirigenti cominciarono a sollevare obiezioni di ogni tipo. Si creò la classica situazione del vecchio detto sui tacchini e l’abolizione del Natale.
Cercavano di conservare il posto di lavoro?
Nessuno li avrebbe mai licenziati, però avrebbero perso il loro potere. Per fare un esempio: in uno di quei faticosi confronti sostenni che era assurdo concedere allo stesso autotrasportatore sia il contributo per il gasolio sia quello per incentivarlo a mettere il proprio mezzo sul treno e ridurre così l’inquinamento. Dissi che almeno una delle due agevolazioni era di troppo. Ma questi contributi erano gestiti da due uffici molto potenti del ministero, che se fosse passata la mia linea sarebbero stati chiusi. Così non se ne fece niente.
Lei crede che questa volta potrebbe essere diverso?
Lo spero. Registro che dal ministero dell’Economia è arrivato un primo segnale positivo importante con il cambiamento di uomini di vertice che sembravano inamovibili. È difficile che un dirigente che in 10 anni non è riuscito a tagliare le spese dica: «Finora ho sbagliato, da adesso in poi si fa sul serio». Come nelle aziende private, ci vuole un nuovo «amministratore delegato» per correggere gli errori e le manchevolezze accumulati negli anni precedenti.
Se il criterio è quello della novità, non c’è da stare allegri: il governo ha deciso di affidare la spending review all’ex ministro per i Rapporti con il Parlamento Piero Giarda, presidente della commissione tecnica per la spesa pubblica negli anni Ottanta.
Giarda è una bravissima persona, però è vero che si occupa di questa materia da tanto tempo. Può darsi che finora abbia mancato di ridurre le spese per ragioni indipendenti dalla sua volontà. Ma se è così dovrà dirci fin dal momento in cui si metterà al lavoro che cosa intende tagliare e dove. Se invece arriva e dice che si deve mettere a studiare, allora vuol dire che non è la persona giusta per quel lavoro.
Ma il taglio della spesa non è un’operazione che richiede tempo per definizione?
È vero. Il metodo più efficace è valutare le singole spese una per una piuttosto che tagliarle tutte nella stessa misura come cercò di fare, non per nulla senza successo, l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Ma il primo a cercare di introdurre la spending review in Italia fu Tommaso Padoa- Schioppa, ormai nel lontano 2006. Mi pare che di tempo ne sia passato abbastanza.
Insomma, è il momento di darsi una mossa...
Sì. E una volta presa la decisione si possono anche bruciare le tappe. Valga l’esempio delle pensioni nella scorsa legislatura. Quando fu incaricata di fare la riforma, Elsa Fornero disse che avrebbe avuto bisogno di tempo per studiare. Monti le rispose che, avendo lei notoriamente trascorso gli ultimi 20 anni a studiare le pensioni, era perfettamente in grado di passare all’azione e che doveva portargli il decreto due giorni dopo. Era un venerdì. Le diede tempo fino a domenica. E lei rispettò la consegna.
Professore, lei ammetterà però che quello della riforma delle pensioni, alla fine del 2011, fu un momento eccezionale. Le riforme vere in Italia hanno sempre richiesto trattative a dir poco estenuanti.
Non sempre. Se posso raccontare un altro episodio, lavoravo al ministero del Tesoro e mi trovavo nell’ufficio dell’allora presidente del Consiglio, Giuliano Amato, la notte della manovra da 92 mila miliardi (tra il 9 e il 10 luglio 1992, ndr). La manovra prevedeva tagli drastici, fra gli altri al ministero della Difesa. All’alba si presentarono tre militari con il petto pieno di mostrine per dire che, se davvero avesse mantenuto quella decisione, dal giorno dopo non avrebbero più assicurato la copertura notturna dello spazio aereo. Amato rispose così: «Get lost». Più o meno era l’invito ad andare a farsi friggere. E aggiunse che se non capivano il significato di quell’espressione l’andassero a cercare sul dizionario. Ecco, Enrico Letta dovrebbe imparare dal comportamento di quella notte di Amato.
L’emergenza di oggi è paragonabile a quella del novembre del 2011 o del settembre del ’92?
Di sicuro il taglio della spesa è urgente. Se i governi mancano di farlo, rischiamo la rivoluzione. Finché la ricchezza aumenta, la gente borbotta e poi pensa che in fondo tutto va avanti anche se ci sono gli sprechi. Ma quando la disoccupazione supera il 12 per cento e le famiglie faticano ad arrivare a fine mese, ci si arrabbia nel vedere le tante società più o meno inutili ognuna con i suoi consiglieri di amministrazione tutti pagati.
Rapporto Giavazzi a parte, di quanto bisogna tagliare la spesa pubblica?
Una buona unità di misura è data dal cuneo fiscale.
Che cosa c’entra il cuneo fiscale?
Come, che cosa c’entra? Il cuneo fiscale, ossia la differenza fra il salario lordo pagato dall’impresa e quello netto che va in tasca ai lavoratori dopo tasse e contributi, è il più grosso freno alla creazione di posti di lavoro in Italia, specie per i giovani. Per ridurre questo handicap dobbiamo cercare almeno di portare il cuneo fiscale al livello della media europea. E l’unico modo serio e sostenibile di finanziare questo riallineamento sono i tagli alla spesa.
E lei ha calcolato quanti soldi ci vogliono?
Più o meno 50 miliardi di euro.
Chi legge penserà che lei stia proponendo ricette da mondo dei sogni.
E invece, secondo me, sono soldi che si possono trovare. Fra 10 e 15 miliardi possono venire dal taglio dei contributi alle imprese di cui ci siamo occupati noi, altrettanti da quello alle detrazioni fiscali di Vieri Ceriani. E ci sono tante altre cose che si possono fare, a partire dai costi della politica, abolizione delle province comprese, dai cui possono arrivare altri 5 o 6 miliardi. Per finire con la chiusura degli enti inutili e la cessione delle aziende in perdita perenne possedute dagli enti locali.
Se questo è l’ordine di grandezza delle risorse necessarie, il miliardo e mezzo sbandierato dal presidente del Consiglio Enrico Letta al ritorno da Bruxelles per il lavoro ai giovani forse non merita l’enfasi che ha ricevuto.
Infatti è così. Vale all’incirca lo 0,1 per cento del prodotto interno lordo. Con quella cifra potremo forse aiutare la creazione di agenzie di collocamento pubbliche, non certo rilanciare l’occupazione.
Il presidente della Confindustria Giorgio Squinzi ha appena finito di dire che si cominciano a vedere nella sua azione i segni di un ritorno alla politica economica.
A me sembra che di fronte alla gravità della situazione in cui versa il Paese ci si muova troppo lentamente. Il pil è caduto di 2,4 punti l’anno scorso e cadrà di altri 2 punti quest’anno. Siamo in una recessione che l’Italia non ha mai visto dagli anni Trenta. E il guaio è che non abbiamo ancora toccato il fondo perché continuiamo a scendere. A fine anno le cose dovrebbero migliorare, ma per ora si vedono solo numeri negativi. Di fronte a tutto questo ci vorrebbe un’azione un po’ più drammatica.
Eppure anche Letta, come Monti, sembrava esser partito con il piede giusto sui temi economici. Questi governi di emergenza si arenano a causa di una insufficiente legittimazione politica?
Più che la legittimazione politica, il problema è la fragilità delle maggioranze parlamentari. Se mentre si governa i due partiti maggiori stanno lì a guardarsi per capire quand’è che gli conviene andare alle elezioni, è difficile portare a termine riforme incisive. Ma qui molto dipende da quanto è disposto a rischiare il capo del governo.
In che senso?
Un presidente del Consiglio può partire con le migliori intenzioni, ma se quando è in carica si preoccupa di durare più che di fare le cose, sarà sempre bloccato da veti e resistenze. Prendiamo il caso di Monti: da novembre 2011 a febbraio 2012 è riuscito a trasmettere al Paese il giusto senso di urgenza, approvando misure importanti. Poi, quando sono arrivati in Parlamento il decreto sulle liberalizzazioni e il disegno di legge sul lavoro, che sono stati fondamentalmente svuotati, la sua azione si è spenta. Se avesse minacciato di dimettersi, forse l’avrebbe spuntata. Vale lo stesso per quel che riguarda i tagli.
Letta rischia di compiere la stessa parabola?
Ancora più di Monti, che era andato al governo come tecnico. Per un politico a tutto tondo come Letta la tentazione di restare in sella a prescindere dai risultati è sicuramente più forte.