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Economia

Il ricatto del gas 2.0. Dalla padella russa alla brace azera

L'accordo siglato dall'Europa con il paese ex Unione Sovietica rischia di saltare mettendoci in grossi guai in vista dell'inverno 2023

Oggi le previsioni apocalittiche circa le prospettive dell'approvvigionamento energetico per quest’inverno sembrano ridimensionate. Certo le bollette dell’energia elettrica sono alle stelle, ma il gas è sceso bruscamente dal picco storico di agosto: un autunno insolitamente mite e gli stoccaggi del gas al 95% inducono a pensare che gli scenari peggiori, blackout diffusi e razionamento, siano stati evitati.

Inoltre le ampie rassicurazioni circa la “diversificazione delle forniture” future inducono a credere allo scampato pericolo. Meglio non essere così sicuri.

Il prossimo inverno probabilmente non ci sarà il gas russo a riempire gli stoccaggi e prima che venisse chiuso Nord Stream 1, il principale gasdotto che trasportava il gas dalla Russia all'Europa, il combustibile russo era stato importante per raggiungere gli attuali livelli di stoccaggio.

L'UE ha anche sostituito quello russo mancante con importazioni di gas naturale liquefatto, GNL, grazie ad una domanda più debole altrove: significativamente in Cina, dove l’irregolare attività economica, dovuta alla politica Zero Covid, ha frenato il suo appetito ma il Dragone, già quest’anno, potrebbe superare il Giappone e diventare il maggior importatore globale di gas naturale disponendo di 12 terminal per accogliere GNL. Se la Cina riprende la sua corsa economica l’Europa entrerà in competizione con Pechino per l’approvvigionamento di GNL.

Aspetti che dovrebbero indurre a non lasciarsi andare a facili ottimismi sono anche la rallentata produzione nucleare francese, alle prese con problemi di manutenzione, e la limitatezza delle forniture di gas non russe in particolare da Norvegia, Azerbaigian e Algeria. Ma il tallone di Achille potrebbero essere le politiche climatiche europee che hanno instillato legittimi dubbi sui futuri fornitori circa il reale interesse nel medio, lungo termine dell’Europa per il loro gas.

Il comunicato del luglio scorso con cui la Commissione Europea annunciava l’accordo di cooperazione raggiunto tra Europa ed Azerbaigian siglato da Ursula von der Leyen con ilPresidente Ilham Aliyev lasciava intendere che gli azeri sarebbero stati ben felici di rifornire quanto più possibile con il loro gas il nuovo, ricco, cliente. Infatti nell’accordo firmato tra Bruxelles e Baku si prevede che il volume di gas esportato dall'Azerbaigian verso l'Unione europea entro il 2027 arrivi a 20 miliardi di metri cubi all'anno.

La doccia fredda è arrivata qualche giorno fa con le affermazioni del viceministro degli Esteri dell'Azerbaigian Elnur Mammadov che, con molta franchezza, ha spiegato la posizione del suo governo: “Chiunque sia interessato a investire, che sia pubblico o privato, deve mettere i soldi sul tavolo per consentirci di aumentare la capacità”... “Non direi che c'è un disaccordo con l'UE, ma questa è una parte importante del puzzle”.

Il che significa, aspetto che forse era sfuggito agli esperti di Bruxelles, che i costi dell'upstream, ossia l'insieme dei processi operativi di acquisizione dei diritti di sfruttamento, esplorazione, sviluppo ed estrazione ai fini della commercializzazione, necessari alla produzione del gas sono a carico dell’acquirente: l’Europa. D’altra parte l'espansione del corridoio meridionale di 3.500 chilometri richiede miliardi di dollari di investimenti e naturalmente Baku chiede garanzie che questi accordi si estendano ben oltre il 2027.

Un’implicita conferma che l'arrogante convinzione, iniziata oltre 18 mesi fa con le parole di Fatih Birol, “No new oil and natural gas fields are needed in the net zero pathway..”, di poter trattare i fornitori di energia fossile a pesci in faccia è definitivamente tramontata: nel contesto attuale, in cui è improvvisamente scomparsa una consistente parte dell'offerta mondiale di gas naturale, sono proprio i produttori delle fossili ad avere il coltello dalla parte del manico.

Perché come evidenziato dagli analisti di S&P Global Commodity Insights "Nessun Paese si farebbe carico del rischio di miliardi di dollari per spese di sviluppo senza sapere di avere un compratore a lungo termine". La costruzione del Southern Gas Corridor è costata 40 miliardi di dollari e l'Azerbaigian può aumentare leggermente le sue esportazioni di gas verso l’Europa, ma saranno necessari investimenti importanti per aumentare sostanzialmente questo volume:

La questione evidente, per chiunque, è che l'Europa ha bisogno di più gas nel breve-medio termine, ma la prospettiva nel lungo termine è molto meno chiara, per via dell’European Green Deal che prevedeva di utilizzare il gas come strumento temporaneo e residuale prima di diventare, entro il 2050, il "primo continente climaticamente neutro". Tutto questo prima della guerra che ha contribuito a ribadire l'essenzialità del gas a sostegno delle energie rinnovabili non programmabili.

Basta dare uno sguardo in Germania dove decine di migliaia di pale eoliche rischiano di diventare inutili senza il gas russo: si possono aggiungere a quel sistema energetico tutte le pale e i pannelli desiderati, ma senza una affidabile potenza di generazione, pari al massimo storico della domanda elettrica più un'opportuna riserva di centrali programmabili il rischio di blackout diventa inevitabile qualora capiti che vento e sole scompaiano insieme ed inaspettatamente. Per paradosso, tante più pale e pannelli vengono installati, tanto più si è dipendenti dal gas.

Il capacity market alle centrali a turbogas, utilizzate come backup delle rinnovabili intermittenti, deve fare i conti con gli altri attori di questa catena siano essi gli azeri, piuttosto che gli algerini o i russi, i quali per mettere a disposizione il loro gas vogliono continuare ad incassare le medesime cifre a prescindere dalle rinnovabili. Diversamente il concreto rischio è che il gas prenda altre strade paralizzando l'intero sistema energetico: pertanto si rende così necessaria una duplicazione sia dei sistemi che dei costi.

Con la Commissione alla disperata ricerca di forniture di gas per supplire alla fragile sicurezza energetica del continente e con il rischio che, a guerra finita, qualcuno a Bruxelles decida che la Russia è tornato un “fornitore affidabile”, come ipotizza Mammadov, e ritorni a comprare gas da Mosca, non ci sarebbe da stupirsi se, dopo gli azeri, si facessero vivi anche gli algerini a battere cassa.

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Giovanni Brussato