Google, Amazon e quel vizietto di eludere le tasse
Come Apple e Microsoft realizzano i profitti in un Paese ma li trasferiscono in un altro dove il fisco è più generoso
Cominciamo sgombrando il campo dagli equivoci: non parliamo di operazioni illegali, ma di atteggiamenti che chiamano in causa, forse, più le categorie dell’etica. Fatto sta che le principali aziende dell’hi-tech, tra le poche che in questi momenti grigi riescono a maturare utili importanti, hanno un’abitudine in comune: realizzano i profitti in un Paese, anzi più o meno in tutti i Paesi, poi li trasferiscono in blocco in quelli, pochi, dove la tassazione è più generosa o addirittura nulla. Oppure fanno di meglio: in alcuni casi risolvono il problema alla radice e scelgono come sede principale la nazione più generosa con i loro conti, sebbene sia piccola, defilata o strategicamente meno importante.
Niente di nuovo, qualcosa di visto altrove tante volte, ma che forse meriterebbe una riflessione attenta, come minimo sul piano del trattamento dell’immagine di questi colossi. Intanto, i fatti: l’ultima notizia in ordine di tempo riguarda Google, che di sicuro ha poco confidenza con le leggende, o comunque è disposta a passare oltre la superstizione in nome di un sano pragmatismo. Nel 2011 avrebbe risparmiato circa 2 miliardi di dollari di tasse spostando 9,8 miliardi di dollari di guadagni a una società di comodo nel paradiso fiscale delle Bermuda (sì, proprio quello del famigerato Triangolo). Questo perché in quel ridente angolo di sole, spiagge e mare diafano, proprio perché qualsiasi flusso di capitali è benvenuto, semplicemente non è prevista una tassa sul reddito aziendale. E così Google ne approfitta e ci si butta a pesce.
Passando alla società più famosa nel mondo nel settore dell’e-commerce, la Reuters le ha dedicato nei giorni scorsi un approfondito articolo dal titolo già indicativo: «Lo scudo fiscale miliardario di Amazon». Nelle prime righe si legge come già dal 2005, mettendo radici a Lussemburgo, l’azienda sia riuscita a minimizzare le tasse da pagare. «Privando i governi europei» scrive la nota agenzia «di centinaia di milioni di tasse». E non è finita: il meccanismo avrebbe permesso all’azienda di Jeff Bezos di versare meno dollari persino in patria, negli Stati Uniti. Un capolavoro di regia. Pacco, doppio pacco e contropaccotto, direbbe Nanni Loy.
Ma alla fine della fiera, è possibile davvero biasimare Amazon e Google, se questo (mal)costume è prassi? È stato il New York Times un po’ di mesi fa a svelare le abitudini della regina assoluta dell’hi-tech, la Apple, che nonostante abbia la sede in California, raccoglie e investe gli utili societari in Nevada, lo Stato di Las Vegas, perché qui le aliquote sui profitti delle aziende sono nulle, mentre a San Francisco e provincia sfiorano un salato 9 per cento. Ma questo trattamento è riservato solo al 30 per cento degli utili, il resto va all’estero: nella generosa Europa. O meglio, di nuovo, nei generosissimi Paesi Bassi e poi in Irlanda e di qui verso paradisi fiscali. Un grande lungo viaggio, che finisce con le casse ancora gonfie.
E la Microsoft? È il Sunday Times a dire che in Inghilterra, pur avendo guadagnato nel 2011 la bellezza di 1 miliardo e 700 milioni di sterline, l’azienda di Windows non ha versato nemmeno un centesimo, pardon un penny, all’erario di Londra. Dove sono andati i soldi? Neanche a farlo apposta in Lussemburgo, da cui sono transitati in Irlanda e di qui verso le Bermuda a godersi il sole mano nella mano con Google. Tutto legale, era la premessa. Ecco, non sarebbe il caso di fare in modo che non lo sia?