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Economia

La guerra Cina-Stati Uniti sui semiconduttori si fa ancora più dura

Contri i dazi di Washington Pechino crea un fondo specifico per il settore da 50 mld di dollari

Nuovo round nella guerra dei semiconduttori tra Stati Uniti e Cina. Il colpo questa volta è stato battuto da Pechino, che ha creato il fondo di investimento per il settore più grande mai visto nel Paese. Quasi 50 miliardi di dollari per rispondere ai dazi americani, con un obiettivo chiaro: l’autosufficienza e l’espansione nell’ambito dei semiconduttori.

La guerra commerciale tra Usa e Cina si sta combattendo, da anni, su più fronti. Quello delle auto elettriche, del settore della transizione energetica e dell’industria dei chip (produzione, vendite e know how). Sui semiconduttori la guerra va avanti a colpi di dazi ed investimenti. Stati Uniti e Unione Europea hanno messo sul tavolo quasi 81 miliardi di dollari per la produzione di semiconduttori di prossima generazione. Prima tranche di quasi 380 miliardi di dollari già stanziati.

La Cina è alle prese da dieci anni con un piano economico a favore dei microchip. Nel 2014 è partito con un investimento di quasi 140 miliardi di yuan (18 miliardi di dollari). Nel 2019 è stata la volta di 204 miliardi di yuan (circa 28 miliardi di dollari). E ora tocca a Big Fund III: 344 miliardi di yuan (47,5 miliardi di dollari). Il maggior azionista del fondo è il Ministero delle Finanze di Pechino (17%) che ha versato circa 8 miliardi di dollari. A seguire c’è China Development Bank Capital con il 10,5% e poi diciassette investitori (tra cui cinque grandi banche cinesi).

Un investimento mai visto finora in Cina. Per vincere la guerra con Washington? Sicuramente il Dragone è in difficoltà a causa del blocco imposto dagli Stati Uniti. Nel 2022 la Casa Bianca praticamente ha vietato alle aziende americane (e “invitato” gli alleati) la vendita alla Cina chip avanzati e macchinari per produrre semiconduttori. Ha poi alzato a più del 100% i dazi sui prodotti cinesi del settore.

Pechino, quindi, esporta con difficoltà e non può comprare facilmente chip avanzati e attrezzature per la loro produzione. Questo ha ripercussioni sul progresso tecnologico di Pechino, che rischia di rimanere indietro, rispetto all’Occidente, soprattutto sull’intelligenza artificiale. Ecco il perché di Big Fund III. La Cina vuole diventare più autonoma sui semiconduttori (non subendo più le ripercussioni dei blocchi americani) e vuole affrancarsi per lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale generativa. Quindi questo fondo dalle dimensioni mai viste è fatto, anche se non in modo dichiarato, per sostenere lo sviluppo di apparecchiature per la produzione di chip soggette a restrizioni statunitensi e aiutare le principali aziende cinesi di semiconduttori a passare rapidamente da fornitori internazionali a fornitori domestici per la produzione di chip.

La mossa di Pechino non è solo un giocare in difesa. La Cina vuole diventare autonoma e leader mondiale della tecnologia, ma c’è un rischio, dietro l’angolo, secondo alcuni osservatori. Nell’ultimo periodo Pechino ha intensificato la produzione di chip meno avanzati. Come a volersi riservare questa fetta di mercato. I nuovi fondi possono immettere finanziamenti in questo senso, ma il rovescio della medaglia è chiudersi (e costringere le proprie aziende a questo) in un mercato meno innovativo ed internazionale.

E poi c’è il fattore Taiwan, alleato storico degli Stati Uniti e nodo strategico per l’economia mondiale dei chip. Se la Cina riannettesse Taiwan? I test militari degli scorsi giorni hanno impensierito la Casa Bianca. Secondo Bloomberg la taiwanese Tsmc e l’olandese Asml, leader sull’isola, possiedono sistemi di controllo da remoto delle attività e potrebbero disattivare i macchinari in un qualunque momento in caso servisse. Tra dazi, divieti e investimenti dunque la guerra dei chip sembra solo ancora agli inizi.

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Cristina Colli