Il lato oscuro della globalizzazione
I movimenti di capitale, Internet e l'immigrazione hanno cambiato il mondo. Attenti dunque a liquidare i populisti che cavalcano criticità reali
Gli economisti, si sa, litigano fra loro su quasi tutto. C'è un punto, però, su cui sono quasi tutti d'accordo: è la teoria dei vantaggi comparati.
Inventata da David Ricardo un paio di secoli fa, questa teoria asserisce che il commercio internazionale è vantaggioso per tutti i Paesi che lo praticano, perché l'apertura dei mercati fa sì che ogni Paese si specializzi nelle produzioni in cui ha un vantaggio comparato rispetto agli altri Paesi, il che provocherà un aumento della produttività media, un abbassamento dei costi, e in definitiva la possibilità di approvigionarsi a prezzi convenienti acquistando le merci che altri sono in grado di produrre più a buon mercato.
Su questa teoria c'è sempre stato un consenso quasi unanime, e in effetti la storia economica sembra dare ragione a quanti credono nelle virtù del commercio internazionale: i periodi di apertura dei mercati sono stati per lo più periodi di crescita e di prosperità per i Paesi che hanno puntato sugli scambi di merci e servizi. Oggi, però, anche questa consolidata teoria suscita qualche dubbio.
Dopo tre decenni di globalizzazione, le economie occidentali sono andate incontro alla più lunga crisi della loro storia, una crisi che per alcuni Paesi, fra cui l'Italia, è durata quasi un decennio. Ci si chiede, quindi, se sia sempre vero che l'apertura delle economie favorisca davvero tutti i Paesi coinvolti.
Il dubbio è alimentato dal fatto che, negli ultimi decenni, l'apertura ha promosso la crescita di decine di Paesi arretrati (fra i quali la Cina e l'India) ma pare aver rallentato quella di una parte considerevole delle economie avanzate. Questa eventualità, ovvero che la globalizzazione possa essere un vantaggio per alcuni Paesi e uno svantaggio per altri, prima della crisi non era stata presa sul serio da quasi nessuno, almeno in Italia.
Con due importanti eccezioni, però: nella prima metà degli anni Novanta, sia Giovanni Sartori sia Giulio Tremonti avevano messo in guardia contro i rischi di impoverimento che i Paesi avanzati correvano di fronte alla concorrenza dei Paesi arretrati, a causa dei bassi costi della manodopera e della debolezza delle regolamentazioni.
Oggi il sospetto che la globalizzazione possa essere dannosa per le economie avanzate è molto più diffuso. In parte si tratta di una credenza semplicistica, che sopravvaluta i rischi della globalizzazione e sottovaluta i vantaggi della specializzazione e della concorrenza. Ma in parte si tratta di un timore non infondato. Rispetto alle due grandi onde di globalizzazione precedenti (ultimi decenni dell'Ottocento, trentennio 1945-1975), la globalizzazione degli ultimi 20-30 anni si caratterizza per alcune novità che potrebbero averne cambiato il segno, ridimensionando significativamente le ragioni dell'ottimismo ricardiano.
La prima novità è la liberalizzazione dei movimenti di capitale e la finanziarizzazione delle economie, che hanno reso molto più interdipendenti e instabili le maggiori economie del pianeta. La seconda novità è la diffusione di internet e più in generale dei mezzi di comunicazione e trasmissione dell'informazione. Ciò ha enormemente agevolato le pratiche commerciali più scorrette, la circolazione illegale di servizi e prodotti, la contraffazione di merci e marchi, la sottrazione di software ai legittimi proprietari e produttori, la violazione del diritto d'autore, la pirateria informatica. La terza novità, connessa alla diffusione dei telefonini, della tv satellitare e di internet, è l'esplosione dei flussi migratori verso i Paesi avanzati, certo alimentati da dittature e guerre civili, ma sempre più spesso indotti dalla semplice constatazione del benessere occidentale, ed europeo in particolare.
La globalizzazione degli ultimi vent'anni, in altre parole, somiglia ben poco a quella delle grandi onde del passato. Resta vero che alcuni Paesi se ne avvantaggiano moltissimo, resta vero come pensava Ricardo - che essa fornisce un grande impulso alla produttività, ma a tutto ciò si aggiungono fenomeni e meccanismi sostanzialmente nuovi: la concorrenza sleale fra economie, l'enorme potere - e l'enorme potenziale di destabilizzazione - della finanza, l'afflusso disordinato di centinaia di migliaia di persone verso i Paesi ricchi.
Ecco perché anche i sostenitori più convinti dei benefici dell'apertura dei mercati e della libera circolazione dei beni, dei servizi, dei capitali, dei segni (immagini e testi via internet) cominciano a vacillare. Ecco, soprattutto, perché in questi lunghi anni di crisi, in cui la globalizzazione ha mostrato il suo lato inquietante, un po' ovunque sono esplosi movimenti di tipo populista, che predicano l'isolamento e puntano sul rafforzamento degli Stati nazionali. Possiamo deprecarli quanto vogliamo, ma faremo meglio a renderci conto che, se attecchiscono, è soprattutto perché la globalizzazione non è più quella che aveva in mente Ricardo quando formulava la sua teoria dei vantaggi comparati.