Draghi chiede più acciaio da Ilva, ora ritirare la cassa integrazione.
È saltata la Vendita ad acciaierie d’Italia e l’azienda non ha liquidità per aumentare la produzione. Ma i partiti frenano il decreto preferendo pagare la cassa integrazione
Nel decreto Energia concordato ieri in Consiglio dei Ministri rispunta una norma per aumentare la produzione dell’Ilva aumentandone la liquidità, fondamentale non solo all’azienda per tenersi in piedi ma anche a tutta la filiera della siderurgia per affrontare questo momento di crisi delle materie prime accentuato dalla guerra.
Come Panorama vi aveva raccontato la norma era già stata inserita nel consiglio dei ministri del 31 dicembre nel decreto milleproroghe e prevedeva lo spostamento di 575 milioni di euro dalla disponibilità dell’amministrazione straordinaria (con i bilanci omissis), a quella di Acciaierie d’Italia, sempre vincolandoli ai lavori di ambientalizzazione, nello specifico 450 milioni all’attuazione del piano ambientale e di tutela sanitaria e 190 milioni alla bonifica del sito del siderurgico di Taranto e della connessa centrale termoelettrica.
Se non che dopo la caduta del sindaco del Pd per mano dei suoi consiglieri di maggioranza che si erano visti negare le primarie per le prossime amministrative, dem e 5 stelle sono scesi in piazza affiancando l’Usb contro il governo per provare a rifarsi una verginità elettorale a fronte della promessa tradita di non aver chiuso Ilva dopo che a Taranto nel 2013 i grillini avevano preso su quell’impegno più del 50 per cento dei voti. A difendere la norma voluta da Draghi era rimasta solo la Lega, che non essendo rappresentata in città è l’unica a non dover pagare il pegno della decrescita sull’altare del populismo politico. Tant’è che Salvini pose la questione Ilva proprio il giorno della rielezione di Mattarella, sottolineando come non ci potesse essere un ministro che lotta per salvarla, e un altro per chiuderla.
La battaglia interna è stata condotta dalle due vedove del Conte bis Francesco Boccia nel Pd e Mario Turco nei 5stelle. Cosi la notte prima della ratifica del decreto alla Camera, il parlamentare del Pd ha presentato una riformulazione con cui vincolava i 575 milioni all’approvazione del Presidente della Regione Puglia (a cui deve l’inserimento nel listino bloccato e la rielezione in Parlamento), e la nomina di Michele Emiliano a commissario ad acta per la decarbonizzazione di Ilva.
A quel punto Forza Italia e 5 stelle hanno fatto saltare l’articolo.
Draghi appena saputo l’accaduto balzò su tutte le furie lasciando Parigi nel bel mezzo di un Consiglio Europeo per precipitarsi in una riunione di maggioranza e fare la ramanzina al Pd. Persino Letta riconobbe l’errore. Eppure anche ieri a Taranto il candidato sindaco del Pd ha subito tuonato contro il decreto che aumenta la produzione, nonostante da almeno dieci anni le emissioni a Taranto sono costantemente molto al di sotto dei limiti di legge.
Nel frattempo le cose sono precipitate ulteriormente. L’azienda infatti ha immediatamente risposto alla soppressione della norma inviando una richiesta di cassa integrazione straordinaria per 3 mila dipendenti per due anni. Richiesta di fronte alla quale il ministro Andrea Orlando che deve autorizzarla non ha battuto ciglio, ma che ha visto la ferma opposizione dei sindacati.
Ma ancor più grave è che è saltata la vendita ad Acciaierie d’Italia (che al momento è solo affittuaria degli impianti) e l’ingresso di 680 milioni del capitale di Invitalia per il passaggio in maggioranza, a causa del mancato dissequestro dell’area a caldo da parte del tribunale. Saltato il contratto tecnicamente ora Acciaierie di Italia dovrebbe restituire tutti gli asset a Ilva, compresi i dipendenti. Inoltre l’amministrazione straordinaria dovrebbe restituire gli investimenti fatti in questo periodo (circa due miliardi).
L’unica soluzione è un nuovo accordo, ma nel frattempo di fronte a questa mancanza di credito e di fiducia da parte dell’azionista pubblico, anche le banche si sono ritirate dai finanziamenti.
Così ieri quella stessa norma è stata reinserita, con un’aggiunta importante. Oltre il trasferimento di 150 milioni dall’amministrazione straordinaria ad Acciaierie d’Italia, anche l’estensione della garanzia Sace. L’azienda aveva chiesto questa garanzia almeno due anni fa, ma piegati dalla campagna elettorale per le regionali non si fece niente, e così abbiamo solo perso altro tempo inutilmente. Ora ad annunciarlo in conferenza stampa direttamente il presidente Draghi: "Estendiamo la garanzia di Sace all'Ilva per consentire all'azienda di aumentare la produzione e sopperire alle carenze di acciaio, nelle prossime settimane intendiamo prendere nuovi provvedimenti per migliorare la capacità di produrre acciaio”.
Questa volta Draghi non ha potuto fare a meno di ringraziare il Ministro Giorgetti che durante il consiglio dei ministri aveva posto attenzione sul tema lanciando l’allarme “Servono rottami e tutela della materia prima che abbiamo nel Paese per poter garantire la produzione”, invitando tutti a una riflessione su Ilva e, in particolare, se modificare le quantità di acciaio prodotte a tutela del prodotto nazionale.
Infatti come abbiamo spiegato rispetto a una produzione autorizzata di 6 milioni di tonnellate fino a completamento del piano ambientale, Ilva oggi ne produce solo 4.
Della proposta di Giorgetti però è stata accolta solo la parte espressamente legata a Ilva. Già la scorsa settimana infatti, dopo aver incontrato Giuseppe Pasini recandosi direttamente presso lo stabilimento Feralpi di Brescia, il ministro, senza alcuna discussione pubblica, aveva fatto trapelare l’idea di un blocco export per i rottami, materia prima per le acciaierie del nord.
Ma la cosa non era affatto opportuna, e in consiglio dei ministri alcuni hanno puntato i piedi. Ma in una bozza successiva più aggiornata (anche il governo Draghi come il precedente fa passare giorni dalla conferenza stampa alla pubblicazione) pare che questa norma sia rispuntata, demandando a un successivo dpcm l’elenco delle materie prime bloccate all’export o soggette a prelievo o tassazione (30%) alla dogana, ma ovviamente serve parere della Commissione eu.
Nell’anno 2020 l’Italia ha esportato verso i Paesi extra Ue solo 450.000 tonnellate di rottame ferroso; ha importato da Paesi extra Ue non più di 307.000 tonnellate; mentre dai Paesi Membri UE 4,891 milioni di tonnellate e, a sua volta, ha effettuato cessioni per sole 210.000 tonnellate.
A fronte di un consumo totale stimato da parte della siderurgia nazionale di circa 20 Mt di rottame ferroso. Secondo Assofermet: “L’introduzione di Misure restrittive determinerebbe, automaticamente, un enorme eccesso di Offerta sul mercato Ue, la cui grandezza in termini di volumi, in assenza di una domanda interna strutturalmente capace di assorbirne il gettito a disposizione, provocherebbe inevitabilmente: un crollo delle quotazioni non solo del rottame, ma anche dei prodotti di acciaio a valle, con particolare riflesso sulla produzione siderurgica di prodotti lunghi, ma anche sui piani prodotti da rottame; un grave nocumento per tutte le Imprese che dalle loro lavorazioni, producono scarti di lavorazioni costituiti da rottami ferrosi “nuovi”; una perdita di valore del rottame derivante dal cosiddetto “fine vita” di manufatti/beni finiti, così come del rottame proveniente dalle demolizioni più in generale; l’impossibilità di ricollocare fisicamente il rottame in eccedenza nel ciclo produttivo, con un grave rischio ambientale e insormontabili problemi a livello di autorizzazioni (Stoccaggi massimi ammessi) per gli Impianti di recupero impedendone, di fatto, la trasformazione da rottame classificato come “rifiuto”, a rottame “End of Waste”; infine, ai fini della “Circular Economy” stessa, non renderebbe più economicamente sostenibile la raccolta e il recupero di determinate tipologie di rottame ferroso di scarso valore, interrompendone il ciclo di raccolta, disciplinato tra l’altro dalla normativa sui rifiuti”.
Nonostante attraverso una velina di palazzo puntualmente ma erroneamente riportata da alcuni giornali, avevano tentato di legare questa norma a ilva, nel cdm di ieri non è stata fatta passare.
Ilva infatti è l’unica acciaieria italiana rimasta a ciclo integrale, l’unica quindi non vincolata alla presenza di rottame. Che è anche il motivo per cui è indispensabile per tutta la filiera, tant’è che in questi giorni si sta pensando a una leggera modifica impiantistica per produrre panetti di ghisa per sopperire parte dello shortage causato dalle criticità nell’approvvigionamento nel bacino del Mar Nero con circa 1,2 milioni di tonnellate, nonché il forte rincaro del prezzo.
Inoltre come Panorama aveva raccontato con il fermo delle acciaierie in Ucraina si sono fermate in Italia importanti succursali come la Metinvest a cui arrivavano i semilavorati ucraini che rifornivano acciaio per importanti clienti come Finmeccanica e Cimolai.
L’articolo del decreto Energia, nello specifico, è ancora molto generico. Però è importante perché fissa dei punti da cui si spera non si possa più tornare indietro.
Il primo è che a Ilva serve liquidità. E non la si può recuperare mettendo in cassa integrazione straordinaria gli operai, come richiesto al tavolo convocato la settimana scorsa dal Ministero del Lavoro.
L’azienda lega una produzione di 5,7 milioni di tonnellate di acciaio con 5700 operai, a fronte degli 8 mila che ci sono adesso secondo il piano di Dimaio del 2018. Che invece secondo Adi tornerebbero solo con l’aumento della produzione a 8 milioni nel 2023 con l’avvio di afo5 e del forno elettrico.
Ma solo per il revamping dell’altoforno servono almeno 200 milioni, e 140 di manutenzioni ordinarie, mentre Arcelormittal ne ha già spesi più di un miliardo solo per il piano ambientale che è completo al 90 per cento e in perfetto rispetto della tabella di marcia. Invece è miliardario l’investimento stimato per il progetto Energiroon a dri (per cui è già stata costituita una nuova società pubblica) depositato in una memoria presentata da Danieli alla Camera dei deputati dallo scorso luglio. Del resto nulla si sa di come verranno investiti i due miliardi per la decarbonizzazione delle fabbriche hard to abate previsti nel Pnrr ma al momento ancora senza bando.
Questi 150 milioni indirizzati col decreto Energia, oltre a essere una cifra irrisoria rispetto al fabbisogno, non sono neppure un nuovo finanziamento ma appunto, come già previsto nel milleproroghe poi soppresso, uno spostamento di una parte di quel miliardo e duecento milioni prelevati alla famiglia Riva dopo accordo transattivo. Inoltre questo fondo non viene dato nelle mani di Acciaierie d’Italia, ma, ma dice il decreto, i piani dovranno essere proposti da Adi ma attuati dall’amministrazione straordinaria (quindi bilanci omissis) anche avvalendosi di una società in house dello stato. Ma l’as nasce per liquidare l’azienda, il che fa intuire che non è detto ci sia più la vendita. Nè fa ben sperare lo spauracchio di un ulteriore carrozzone in house.
Inoltre per essere utilizzati dovranno passare da un ulteriore decreto del Ministro dello Sviluppo economico e del Ministro della Transizione Ecologica, da adottarsi di concerto con il ministro dell’Economica e delle Finanze, sentito però, dice l’articolo 10 del decreto Energia, il presidente della Regione Puglia. Il che non fa presagire nulla di buono. Non si capisce davvero perché il governo Draghi abbia deciso di legare le sorti della più grande azienda manifatturiera del Paese al populismo di Michele Emiliano, uno che ha sempre detto che Ilva la vuole chiusa e sarebbe stato meglio non fosse mai esistita. Addirittura ancora pende dinanzi al tar il suo ricorso presentato con il sindaco di Taranto contro il piano ambientale in corso, che se accolto potrebbe far ancora saltare vendita, contratto, piano e tutto il resto. E sappiamo che cosa succede in questo Paese quando si affidano le sorti ai tribunali. Come abbiamo visto la vendita è saltata proprio perché non è ancora stata pubblicata la motivazione della sentenza del primo grado, con l’area a caldo ancora sotto sequestro preventivo dal 2012.
Il secondo punto importante fissato ieri è che Ilva deve produrre di più. Solo superata la soglia dei 6 milioni di produzione quella fabbrica potrà tornare a un equilibrio economico e occupazionale. Finchè non raggiunge quella cifra è solo un carrozzone statale per mantenere cassa integrazione, come è stata Alitalia.
Per questo il segretario della Uilm aveva annunciato che non avrebbero mai firmato l’accordo per la cassa integrazione straordinaria, che nei fatti significa rinunciare per sempre al rientro dei 1800 attuali cassintegrati Ilva in as (che ora la regione Puglia vuole mettere a fare le pulizie nei comuni con un’indennità alla cig, altro che “oltre 1000 lavoratori rioccupati per le bonifiche” come aveva twittato Conte due settimane fa). “Da tre anni abbiamo oltre 5 mila lavoratori in cassa integrazione tra ArcelorMittal-Acciaierie d’Italia e Ilva in amministrazione straordinaria- aveva detto Palombella- Tutto questo è costato trecento milioni di euro senza alcun ritorno economico, ambientale e industriale per Taranto. Soldi pubblici che potevano essere investiti in tutt’altro modo. Un capolavoro! E ora la prospettiva è l’ulteriore richiesta di cassa per 12 mesi che si svilupperà sino al 2024-2025. Per alcuni anni, quindi, continueremo ad avere circa 5mila persone in cassa integrazione. Ma è questo l’obiettivo, questo è il piano di riconversione voluto dal Governo? Se si è parlato di grande progetto per i lavoratori, di uso del Pnrr, come è possibile ora restare in silenzio?”
Del resto quando decise di statalizzarla Conte sapeva che quei miliardi che fino a quel momento doveva metterci Arcelormittal (che ora è andata a mettere in Francia con grande gioia di quel governo), sarebbero stati sostituiti da eguale e maggiore investimento pubblico. Si era dimenticato però di metterceli.
Ci aveva visto giusto il segretario della Uilm tenendo la barra dritta nel non firmare l’accordo per la cassa integrazione straordinaria (altri sindacati erano già pronti a farlo), e oggi può raccoglie il primo tassello conquistato grazie alla sua lotta: “Riteniamo positiva l’attenzione posta dal Presidente del Consiglio Draghi sul futuro della siderurgia e dell’Ilva attraverso i nuovi provvedimenti annunciati nel decreto. L’intervento del Governo per aumentare la produzione Ilva per sopperire alle carenze di acciaio che sta scontando tutta la filiera siderurgica italiana, causate dalla guerra in Ucraina, deve essere accompagnato dal ritiro immediato da parte di Acciaierie d’Italia della procedura di cassa integrazione straordinaria per un anno per tremila lavoratori, ora ancora di più ingiustificata. Chiediamo il rientro a lavoro di tutti i lavoratori e l’accelerazione per gli investimenti sulla decarbonizzazione. Siamo disponibili fin da ora ad avviare un tavolo con il Governo per garantire un futuro ecosostenibile alla fabbrica di Taranto e che preveda la piena occupazione dei diretti, degli indiretti e dei lavoratori di Ilva in Amministrazione straordinaria”.
L’Importante dunque per il momento è spostare il dossier dal tavolo del Ministro della Cassa integrazione a quello dello Sviluppo. Martedì sono convocati i commissari per iniziare la trattativa sul nuovo accordo.