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Economia

Ilva di Taranto: quale futuro dopo la vittoria dei Cinque Stelle?

I grillini hanno fatto il pieno dei voti promettendo la chiusura e la riconversione dell’impianto. E ora a rischio c’è l’intesa con Arcelor Mittal

L’indubbio successo ottenuto dal Movimento Cinque Stelle alle recenti elezioni politiche del 4 marzo, potrebbe avere ripercussioni al momento inimmaginabili sul futuro dell’Ilva di Taranto.

Da tempo infatti, i grillini sostengono con forza la necessità che l’impianto per la produzione di acciaio debba essere chiuso, messo in sicurezza ambientale e riaperto riconvertendone l’attività. Un programma ambizioso per il quale è stato stimato che ci potrebbero volere anche venti anni.

Una circostanza questa che ha ovviamente lasciato sempre perplessità, circa una sua reale fattibilità, soprattutto tra i dipendenti stessi dell’Ilva, preoccupati da una possibile dismissione totale dell’impianto. Eppure, a guardare i numeri, la vera sorpresa delle ultime elezioni è che proprio gli operai dell’impianto siderurgico hanno deciso di dare fiducia al movimento guidato da Luigi di Maio votandolo in massa.

Un maggioranza quasi assoluta

Per capire quale sia stata l’entità della vittoria politica dei Cinque Stelle a Taranto, basti dire che sia alla Camera, dove è stata eletta all’uninominale la giornalista Rosalba De Giorgi, sia al Senato, dove ha primeggiato il docente dell'Università del Salento Mario Turco, i grillini hanno sfiorato la maggioranza assoluta dei voti, ottenendo consensi che vanno dal 45% al 47%.

E davanti ai cancelli dell’Ilva, sono tanti, tra i circa 10mila dipendenti, quelli che non nascondono il fatto di aver votato proprio per il movimento di Luigi Di Maio, denunciando l’esasperazione di anni e anni passati nell’incertezza sul destino della propria azienda. Solo che ora, quegli stessi operai, si chiedono con preoccupazione che cosa potrà succedere all’Ilva, e se davvero, nel caso i grillini prendano la guida del Paese, gli impianti possano essere chiusi e riconvertiti.

Anche perché, se è un fatto che nel programma del Movimento Cinque Stelle si prevede il reimpiego degli stessi dipendenti per le opere di bonifica dell’area siderurgica, la cosiddetta “ambietalizzazione”, è anche vero che nessuno crede che migliaia di lavoratori possano rimanere per anni alle dipendenze sostanzialmente dello Stato per decontaminare un’area di circa 15 milioni di metri quadrati, ossia quasi il doppio della stessa città di Taranto.

A rischio l’accordo con Arcelor Mittal

Tra l’altro tra le conseguenze più immediate di un possibile blocco delle attività, ci sarebbe il possibile stop all’intesa raggiunta di recente con il consorzio Arcelor Mittal. Quest’ultimo ha siglato infatti un contratto per rilevare gli impianti dell’Ilva, inserendo però una clausola secondo la quale, un eventuale spegnimento dei forni della zona a caldo, avrebbe portato all’annullamento del contratto stesso.

Ed è proprio quello che potrebbe accadere nel caso prendesse corpo il programma di riconversione dell’Ilva immaginato dai grillini. Spegnere l’area a caldo dunque significherebbe in pratica far saltare la vendita e, soprattutto, far chiudere l’azienda. Eppure, anche questa preoccupante prospettiva, non ha fatto desistere tanti dipendenti dell’Ilva dal votare per i Cinque Stelle.

Una città in crisi

Tra l’altro, in questa che è una partita tutta da decifrare, in gioco non ci sono solo i posti di lavoro dei circa diecimila dipendenti dell’Ilva, dei quali presto circa almeno 2 o tremila dovrebbero finire in cassa integrazione, ma il destino economico di Taranto.

Lo stabilimento siderurgico infatti, rappresenta una delle poche risorse occupazionali dell’intera città, che fa i conti con attività portuali in declino e più di 5mila lavoratori impiegati in semplici call center. Non sorprende allora che da queste parti la disoccupazione viaggi intorno al 17%, con punte addirittura del 40% nella fascia di età che va dai 18 ai 29 anni.

Ecco perché, per un eventuale governo Cinque Stelle, il nodo della chiusura dell’Ilva di Taranto, potrebbe diventare uno dei primi banchi di prova, che potrebbe mettere in luce quale distanza possa esserci tra il fare delle promesse elettorali e gestire poi materialmente la complicata realtà di una città stretta nella morsa della disoccupazione. Staremo a vedere.

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Giuseppe Cordasco

Sono nato e cresciuto ad Aarau nel cuore della Svizzera tedesca, ma sono di fiere origini irpine. Amo quindi il Rösti e il Taurasi, ma anche l’Apfelwähe e il Fiano. Da anni vivo e lavoro a Roma, dove, prima di scrivere per Panorama.it, da giornalista economico ho collaborato con Economy, Affari e Finanza di Repubblica e Il Riformista.

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