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(Ansa)
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Il caro-energia spegne l’industria

L’Italia ha già perso il 25 per cento delle sue aziende. «Se continuiamo così tra un decennio la manifattura sarà morta» ammonisce Aurelio Regina di Confindustria. La causa? È nelle nostre bollette.

Certo, c’è il ritorno di Donald Trump con i suoi dazi. C’è la concorrenza cinese sempre più aggressiva. C’è il problema dell’immigrazione. Tante emergenze. Ma l’Italia e l’Europa ne hanno una che è più importante di tutte e che sta erodendo le fondamenta su cui poggiano le nostre economie: è il costo dell’energia. È a causa sua, e non solo della Cina, se la locomotiva tedesca si è impantanata. È anche a causa sua se per 20 mesi consecutivi la produzione industriale italiana ha inanellato un calo dietro l’altro. Ed è anche a causa sua se i produttori stranieri non investono da noi, com’è capitato alla casa automobilistica cinese Chery che ha respinto con un cortese «no grazie» le avances del nostro governo.

In Italia l’elettricità costa troppo. Fabbriche di acciaio come quella di Arvedi a Terni spengono i forni. Importiamo cemento o pannelli di legno dall’estero perché è più conveniente che produrli da noi. Stellantis giustifica il calo della produzione di auto anche con i prezzi dell’energia, che pesano per il 12 per cento sugli assemblatori di autovetture. Perfino chi gestisce impianti di risalita è in sofferenza e teme di vedere i clienti scappare in qualche comprensorio straniero. L’energia troppo cara frena l’industria e di conseguenza il Pil, costringendo i governi ad aumentare le tasse o a tagliare le spese per ridurre il rapporto con il debito, mentre se il Prodotto interno salisse più rapidamente quelle manovre non sarebbero necessarie.

«Se continuiamo così in dieci anni la nostra industria sarà morta» avverte Aurelio Regina, delegato per la transizione energetica e presidente del gruppo tecnico energia di Confindustria. «La situazione è molto seria: dal 2009 sono sparite più di 117 mila aziende, il 25 per cento della capacità manifatturiera italiana. Oggi ci sono decine di categorie che stanno pensando di non investire più in Italia e di delocalizzare gli investimenti dove il prezzo dell’energia è più competitivo o ci sono meno vincoli sulle emissioni di gas a effetto serra. Perché un produttore di ceramica dovrebbe venire a produrre in Italia quando può andare in Spagna dove l’energia costa molto di meno o in Turchia dove non è soggetto al mercato europeo delle emissioni di CO²? Due esempi eclatanti: l’alluminio in Italia sta quasi sparendo. E oggi importare sacchetti di cemento costa meno che produrli nel nostro Paese, e stiamo parlando di un materiale per il quale il costo del trasporto incide parecchio: eppure le importazioni stanno aumentando in misura drastica». I dati parlano chiaro, spiega in questa intervista Regina. «Intanto c’è un problema europeo: il prezzo del gas registrato sui mercati europei sfiora i 40 euro a megawattora contro i quattro-otto dollari degli Stati Uniti, forti della loro posizione di maggiore produttore mondiale. Questo differenziale, esploso dopo il Covid e la guerra in Ucraina, è dovuto non solo alla necessità di importare la materia prima gas ma anche al fatto di dover rendere sicuri gli approvvigionamenti per evitare interruzioni delle forniture. Poi, all’interno dell’Europa, il prezzo del gas in Italia è strutturalmente più alto rispetto ai partner dell’Unione, con differenziali storicamente nell’ordine di due-tre euro al megawattora, forbice che negli anni abbiamo cercato di attenuare con una serie di meccanismi per limitarne l’impatto. Questa differenza è dovuta ai costi di trasporto fra i Paesi Ue, all’attuale assetto regolatorio e ai processi autorizzativi che caratterizzano il nostro Paese: pensiamo, per esempio, a tutte le compensazioni imposte a livello locale far accettare i rigassificatori. Sono costi che poi incidono sulla bolletta. Purtroppo, in campo energetico tutto quello che è rappresentato da incentivi e agevolazioni in Italia è scaricato sui consumatori e non sulla fiscalità generale».

Dopo la crisi provocata dalla pandemia e poi da quello del conflitto ucraino, non solo sono aumentati i prezzi del gas in Europa, ma all’interno del continente di sono aperti grandi differenziali tra i vari Paesi, avendo modificato ciascuno i propri mix energetici. «Gli sconvolgimenti sul prezzo del gas si sono riflessi su quello dell’energia elettrica, penalizzando i mix energetici più esposti su quella materia prima. La Germania, grande esportatrice di beni, colpita dalla perdita del gas russo, molto economico, ha spinto sulle rinnovabili e continua a utilizzare impianti a carbone e lignite. Anche la Spagna ha puntato su grandi impianti di energia rinnovabile e ha comunque un parco di centrali nucleari. La Francia ha il vantaggio degli impianti atomici. Mentre noi produciamo l’elettricità usando molto gas, che determina il prezzo sul mercato più o meno per il 60 per cento delle ore dell’anno. Risultato: a ottobre il prezzo dell’elettricità all’ingrosso in Germania era di 86 euro a megawattora contro i 117 euro dell’Italia, cioè paghiamo il 35 per cento in più. In Spagna era di 72 euro a megawattora, in Francia di 63 euro».

Differenze abissali. «Chi da fuori continente vuole venire a investire da noi guarderà alla Spagna dove in certe ore del giorno il prezzo dell’elettricità scende a zero. In Italia, nonostante gli investimenti nelle rinnovabili siano stati sostenuti da incentivi dal 2008 in avanti, la produzione da termoelettrico rimane fondamentale per la stabilità della rete e non dimentichiamo che sulla produzione di elettricità da fonti fossili pesa il costo della CO², che nel resto del mondo non viene applicato o è calcolato in modo meno oneroso. Non solo: in Italia il costo di quella prodotta da rinnovabili è più alto rispetto ad altri Paesi a causa degli oneri autorizzativi, delle compensazioni o del prezzo dei terreni».

Quali interventi propongono gli industriali? «Confindustria ha presentato alla Commissione e al Parlamento europei una proposta di revisione per “disaccoppiare” il mercato elettrico: in pratica si dovrebbero creare due mercati paralleli, uno con l’elettricità prodotta dalle fonti caratterizzate da alti costi di investimento e bassi costi operativi, come le rinnovabili, e l’altro con quella prodotta dagli impianti che presentano strutture di costo maggiormente legate agli oneri variabili, come nel caso del termoelettrico a gas, così da determinare prezzi più coerenti con i reali costi di generazione delle diverse tecnologie. Più aumentano le rinnovabili, più si abbassano i prezzi di mercato. In seguito a questa proposta sono stati messi a punto un Regolamento europeo e una Direttiva che non è ancora entrata in vigore. Però intanto in Italia dal primo gennaio scatta l’Energy Release, un provvedimento promosso da Confindustria che permetterà alle imprese industriali ad alto consumo di energia di approvvigionarsi di elettricità rinnovabile per tre anni a un prezzo competitivo per un terzo dei loro consumi. In cambio, le aziende devono impegnarsi a restituire in 20 anni quanto gli è stato anticipato e investire nell’autoproduzione di energia rinnovabile, creando un circolo virtuoso. È un primo esempio di come dovrebbe essere il mercato elettrico del futuro, con il disaccoppiamento dei prezzi dell’energia rinnovabile da quelli del gas».

Al governo, Confindustria chiede di fare una scelta per il futuro: «Spingere il settore delle rinnovabili, non solo solare ed eolico ma anche il biometano e l’idroelettrico, la cui capacità produttiva può ancora aumentare; sviluppare la ricerca sui piccoli reattori nucleari; e poi continuare a prevedere altre soluzioni complementari come i biocarburanti o l’idrogeno, utili non solo per il comparto manifatturiero ma anche per i trasporti, al fianco dell’elettrificazione e dell’efficientamento dei consumi. Il problema è che oggi in Italia costruire impianti di energia rinnovabile è molto complesso: i provvedimenti come quelli sull’agricoltura o sulle aree idonee creano ostacoli ai grandi campi fotovoltaici. Bisogna cambiare passo, semplificare, altrimenti gli obiettivi che ci siamo dati di produzione di energia verde non li raggiungeremo mai».

Ma oltre al tema del prezzo vanno considerati altri due fattori fondamentali: la sicurezza energetica, emersa nella sua urgenza con le guerre in Ucraina e Medio Oriente. «Tutti temi collegati tra di loro: se, per esempio, vogliamo più sicurezza dobbiamo comprare il metano da fornitori diversi, ma questo ha un impatto sui prezzi perché il Gnl ha costi più elevati visto che va liquefatto, trasportato via nave e poi rigassificato. Dobbiamo confrontarci con importanti economie come quelle cinese e americana che spingono l’acceleratore sulla produzione industriale con giganteschi piani di decarbonizzazione: 500 miliardi di dollari in Cina, 380 miliardi negli Usa contro le decine di miliardi stanziati in Europa. Invece di essere più unito, il mercato europeo rischia di spaccarsi proprio a causa dei differenziali di prezzo dell’energia. Dobbiamo trovare un punto di equilibrio in Europa tra i processi di decarbonizzazione, che hanno i loro tempi, e la tutela del patrimonio industriale. E le soluzioni devono essere sostenibili, basate su quella che io chiamo la neutralità ideologica».

Avremo mai un mercato unico europeo dell’energia? «In teoria sarebbe giusto, permetterebbe all’industria della Ue di competere compatta con i concorrenti americani e asiatici senza farci la guerra tra di noi. Sarebbe bello, ma è difficile immaginare che chi oggi gode di prezzi più bassi grazie a scelte fatte rinunci a tale vantaggio competitivo. Molto dipenderà dallo sviluppo delle infrastrutture di interconnessione che possono abilitare il trasferimento dell’energia e limitare i differenziali sui mercati». Invece di unirci, l’energia alimenta un’ulteriore crisi in Europa. E rischia di farla collassare.

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Guido Fontanelli