La sentenza Ilva non convince e danneggia l'economia
La corte pare prigioniera di un pregiudizio culturale ed aziendale. E l'Italia non può restare senza un piano per la siderurgia
Poteva rappresentare una svolta nella storia giudiziaria di questo Paese: non accettare in toto la tesi della pubblica accusa che dipinge i Riva e i manager dell'ex Ilva come una banda di inquinatori e corruttori e dimostrare che la corte d'Assise di Taranto non era prigioniera di un pregiudizio. Invece non è andata così. Il 31 maggio la giuria del processo "Ambiente svenduto" non ha dato credito alla difesa e ha inflitto pese pesantissime (20 anni e più di carcere) a Fabio e Nicola Riva, ex proprietari dell'ex Ilva, e ad alcuni manager del gruppo siderurgico.
Una sentenza che non convince per tanti motivi e sulla quale, in attesa delle motivazioni, pesa il sospetto che sia il frutto di una visione distorta della realtà, in cui la fabbrica e chi la dirige è il male e i cittadini le vittime. Senza se e senza ma. Se inquini vai punito, anche se stai rispettando le leggi, anche se hai proposto agli abitanti del quartiere Tamburi, adiacente all'acciaieria fin dai tempi della sua costruzione, di spostarsi a vivere in un'altra zona a tue spese, anche se forse ad inquinare non sei stato solo tu ma anche altri. Ci vuole una punizione esemplare, e così è stato.
Nulla da dire sull'infliggere pese pesantissime a chi viola la legge: negli Stati Uniti il finanziere Bernard Madoff ha truffato migliaia di risparmiatori, è finito in carcere, hanno buttato via la chiave ed è morto in prigione a 83 anni. Va bene così. Ma il caso dell'Ilva è molto meno lineare e forse si potevano attenuare le richiesta dell'accusa. Per esempio, la giuria sembra aver accolto la tesi del pubblico ministero secondo il quale "gli imputati erano animati da dolo intenzionale diretto all'evento del reato, che è il disastro; poi ci può essere anche un altro fine, quello di produrre acciaio, quello di produrre reddito, ma non influisce affatto sulla esistenza del dolo intenzionale, che era proprio quello del disastro". In altre parole ai Riva interessava soprattutto creare un disastro. Gli stessi Riva che, secondo un altro tribunale italiano (e non di un lontano pianeta) hanno investito "in materia di ambiente oltre un miliardo di euro" e "oltre tre miliardi di euro per l'ammodernamento e la costruzione di nuovi impianti". Parole del giudice Lidia Castellucci del Tribunale di Milano nelle motivazioni dell'assoluzione di Fabio Riva dall'accusa di bancarotta scritte nel 2020. A Taranto si sostiene che l'Ilva era "abbandonata come una zattera alla deriva". A Milano si dice che il gruppo era ai vertici della siderurgia europeo grazie agli ammodernamenti effettuati dai Riva.
Già questa opposta lettura del ruolo dei Riva da parte della giustizia di uno stesso Paese è bizzarra. Ma poi ci sono altre circostanze che fanno venire qualche dubbio.
Perché i Riva avrebbero tenuto una condotta così sprezzante verso le regole ambientali a Taranto e non invece in Germania o negli altri Paesi dove avevano attività siderurgiche e dove i giudici locali non hanno bloccato la produzione o arrestato i loro manager? Possibile che altrove andava tutto bene e in Puglia no?
Prendiamo l'inquinamento vicino all'impianto siderurgico: secondo un consulente che si è occupato della contaminazione dei terreni dei nove allevamenti nei quali si sono dovuti abbattere dei capi di bestiame perché nelle loro carni le sostanze dannose superavano i limiti europei, queste sostanze non potevano provenire dalla produzione di acciaio ma, forse, da due impianti vicini, uno della Cementir e l'altro, chiuso, della Matra. Oppure prendiamo la deposizione nel febbraio 2020 di Fernando Severini, ispettore del lavoro in pensione, collaboratore della Procura, che accusava l'arsenale militare di essere il colpevole dell'inquinamento del Mar Piccolo di Taranto e non l'Ilva, che laggiù non ha scarichi ma solo una presa in cui l'acqua entra per gravità.
L'impressione insomma è di una sentenza basata su una tesi precostituita, in cui gli elementi raccolti dall'accusa dovevano a tutti i costi combaciare per formare il quadro predefinito. La difesa, per esempio, ha sostenuto che il famoso passaggio di denaro corruttivo avvenuto in una stazione di servizio non è provato e che i soldi prelevati dal manager dell'ex Ilva sarebbero in effetti andati come prassi aziendale all'arcivescovo di Taranto, Benigno Papa. L'assistente di Papa, don Marco Gerardo, ha confermato che l'offerta pasquale c'era stata, e per questo è finito a processo con l'accusa di favoreggiamento ma è stato assolto in appello. Non sembra strano che un prete menta per difendere i Riva?
Vogliamo ricordare la parole pronunciate qualche anno fa di Francesco Boccia del Pd, già commissario liquidatore del Comune di Taranto? "Quando il magistrato decide di bloccare l'impianto deve sapere, anche se non è scritto nel codice penale, che quanto sta per fare è una condanna a morte dell'azienda. Negli ultimi 15 anni a Taranto sono stati fatti un numero imprecisato di interventi per conciliare diritto e lavoro. Gli stessi magistrati non hanno la certezza inconfutabile dell'impatto delle emissioni. Solo un pazzo non chiuderebbe un'azienda che inquina, ma qui non è così".
La sensazione è che i magistrati di Taranto e forse più in generale delle aree meno industrializzate del Paese, guardino all'impresa come un probabile delinquente e inquinatore. Ignorando che quasi ogni attività economica inquina. Che facciamo, mettiamo in galera gli imprenditori edili, che da soli sono responsabili del 4 per cento dell'inquinamento globale? I manager delle fabbriche chimiche? O di quelle che producono i sacchetti di plastica o le mascherine che finiscono in mare e uccidono le tartarughe? Gli agricoltori che usano i pesticidi? I dirigenti dell'Enel che gestiscono la centrale a carbone di Brindisi?
Se i magistrati di Taranto vivessero a Gand in Belgio, dove c'è un impianto dell'Arcelor Mittal simile a quello dell'ex Ilva, metterebbero probabilmente sotto accusa tutto il suo management perché l'acciaieria inquina. E perché i giudici milanesi perché non indagano i proprietari delle centrali elettriche e dei termovalorizzatori e delle imprese chimiche che circondano la città, costretta a respirare un'aria ben peggiore di quella di Taranto (andate a vedere i dati dell'Arpa)?
Forse perché vivono su questo pianeta e sanno che è giusto colpire chi sbaglia ma occorre anche essere realisti e accompagnare le aziende verso il rispetto delle regole ambientali senza farle chiudere.
Ora inizia una nuova era per Acciaierie d'Italia, la nuova società che ha preso il posto dell'ex Ilva e dove lo Stato torna a comandare dopo che la situazione a Taranto ha spinto il colosso dell'acciaio Arcelor Mittal a sfilarsi. Dobbiamo sperare che l'impianto continui a lavorare perché un Paese come l'Italia non può farne a meno. E che i fondi del Pnrr possano servire a trasformare l'impianto in un'acciaieria meno inquinante usando l'idrogeno o altre tecnologie. Ma dobbiamo ricordare che per ora il carbone non si può eliminare. E se vogliamo l'acciaio, almeno per un po' dovremo tenerci anche il carbone.
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