acciaieria piombino
(Getty Images)
Industria

Nemmeno gli scioperi svegliano Piombino ed Invitalia

La settima scorsa i metalmeccanici hanno scioperato e manifestato a Roma contro il Governo (che nel silenzio dei media li ha ignorati) per due vertenze che da anni viaggiano di pari passo: Ilva e Piombino, il primo e il secondo complesso siderurgico del Paese. Entrambi da anni in una crisi occupazionale che pare essere più politica e manageriale che economica e di mercato.

La convergenza tra le due vertenze tocca diversi punti, che vanno dal tempo, alle motivazioni, ai protagonisti, alle soluzioni proposte, ai tavoli susseguiti, al rilancio mai avvenuto.

E i sindacati fanno bene a trattarle insieme e metterle sullo stesso piatto del piano italiano della siderurgia poiché le uniche differenze tra la vertenza Ilva e quella Piombino sono proprio quelle utili all'una per non commettere gli errori dell'altra.

Se Ilva è l'unico siderurgico rimasto in Italia a fare acciaio da altoforno, Piompino è l'unico a fare acciaio per rotaie ferroviarie. E così, se Ilva si ferma l'automotive italiana è costretta a comprare acciaio da ciclo integrale all'estero, mentre se si ferma Piompino, Rfi deve compare acciaio per le rotaie all'estero.

La crisi di Piompino nasce nel 2014, quando viene spento l'altoforno.

Da allora non è piu stata autonoma, dovendo compare il semilavorato per l'area a freddo a prezzi non competitivi e soggetti alla presenza sul mercato.

Qui l'area a caldo venne spenta non per ragioni ambientali, se pur lo stabilimento è ancor più a ridosso della città di quanto lo sia quello di Taranto, ma per una momentanea congiuntura del mercato, e scelte avventate dell'allora proprietà Lucchini in crisi. Scese in piazza tutta la città per evitarlo, sindacati, politici, cittadini, associazioni, tutti uniti contro lo spegnimento dell'altoforno, che in realtà, come ci tenevano tutti a precisare, compreso e soprattutto il presidente della Regione Enrico Rossi, non era una chiusura ma solo uno spegnimento momentaneo, in attesa che la Lucchini in as (amministrazione straordinaria anche qui come in Ilva ancora presente) trovasse un nuovo acquirente. Da allora l'altoforno non è mai più stato riacceso, esattamente come l'afo5 di Ilva spento nel 2015 e ancora oggi presente nei piani industriali di revamping pubblici (l'ultimo accordo Invitalia prevedeva avvio del rifacimento afo5 nel 2021) mai partiti. Una volta che chiudi un altoforno non lo riaccendi più. E neanche lo abbatti.

Con la chiusura dell'altoforno furono messe in cassa integrazione 600 delle 2000 unità lavorative, anche quelle da allora mai più reimpiegate.

"Il suo spegnimento -secondo il commissario Piero Nardi- è l'unica possibilità per la riconversione "ecologica" della Lucchini, da attuarsi con la tecnologia Corex e il forno elettrico". La stessa cosa che dicono oggi per Ilva: anche nel 2014 per Piombino dicevano che il forno elettrico avrebbe rappresentato la soluzione moderna, sostenibile e innovativa per l'area a caldo. Da allora neanche il forno elettrico è stato mai fatto. E questo l'attuale cda pubblico di Ilva dovrebbe fare bene a tenerlo a mente. Se spegni un altoforno, non solo non lo riaccendi più e non lo abbatti, ma neanche lo sostituisci con uno elettrico.

Dopo qualche anno e l'impossibilità della riaccenderlo, per Piombino ovviamente la soluzione proposta, ideata, progettata e propagandata da amministratori e politici, sbandierata a più riprese, è lo smantellamento dell'altoforno, bonifica, e riutilizzo dell'area.

L'altoforno è ancora li, spento, ma presente come un relitto industriale. E inquina molto più oggi spento che acceso ci dice Lorenzo Fusco segretario della Uilm Piombino "perché mentre se acceso si sarebbe potuto riammodernare con le nuove tecnologie come in tutto il resto del mondo, spento è soggetto alle intemperie e i minerali ancora presenti arrivano in città". Oggi i sindacati propongono che venga smantellato anche perché come ci spiega Fusco "l'acciaio che si potrebbe ricavarne vale almeno 200 milioni di euro come rottame, in un momento in cui questo materiale (unico che alimenta i forni elettrici italiani che sono tutti a economia circolare) è praticamente introvabile. Inoltre si potrebbero reimpiegare per anni sulle bonifiche gli operai in cassa integrazione". Eppure anche per il sin di Piombino, come quello di Bagnoli e di Taranto, nessuna bonifica è mai partita e le aree su cui campeggiano gli scheletri degli impianti sono cimiteri industriali inquinanti e pericolosi.

Dal 2014 si sono sussegui inutilmente tre passaggi di proprietà e tre accordi di programma, che hanno portato solo ammortizzatori sociali.

Nel 2018, difronte agli impegni non mantenuti dell'algerino Rebrab, l'allora ministro dello sviluppo Calenda minacciò di mandarli via. A quel punto il governo Renzi trovò un nuovo acquirente: gli indiani di Jindal.

Erano quelli che nello stesso periodo persero la gara Ilva contro ArcelorMittal.

Ancora oggi Boccia ed Emiliano dicono che sarebbe stata meglio darla agli indiani, accusando Calenda di aver truccato la gara. In realtà la gara europea fu validata dai commissari dell'amministrazione straordinaria, e Mittal vince per un prezzo maggiore.

La cosa strana è che a tifare per gli indiani oltre a Emiliano e Boccia, c'era anche Renzi e tutto il giglio magico, politicamente avversario dei due cacicchi pugliesi.

E come loro anche Renzi ancora oggi ammette che preferiva l'altra cordata. Si chiamava Acciaitalia (nome simile alla nuova Ilva-Acciaierie d'Italia) e fu costruita dal governo mettendo accanto a Jindal Cassa depositi e presiti, Arvedi, e Luxottica dell'amico di Renzi Leonardo del Vecchio. L'amministratore delegato di quella cordata (sciolta dopo la gara persa) era Lucia Morselli, guarda caso lo stesso attuale ad di ilva con Mittal.

Persa la gara, Jindal si buttò su Piombino. L'avvocato che seguì l'acquisizione era il presidente di Open Alberto Bianchi. Nel cda di Jindal, dal primo momento, entrò Marco Carrai, che oggi ne è vicepresidente.

La trattativa però fu completamente privata tra il nuovo acquirente e l'algerino Rebrab, che vendette Piombino e il monopolio della produzione di acciaio per rotaie a Jindal per soli 75 milioni di euro.

Il patto industriale con il governo prevedeva il mantenimento dell'occupazione (in cambio di cassa integrazione) e investimenti per la realizzazione di due forni elettrici.

Dopo due anni per rigenerare i laminatoi, alimentati con i coils che facevano arrivare dalle loro acciaierie indiane, Jindal doveva presentare a gennaio 2020 il piano industriale per la seconda fase, quella in cui, tramite forno elettrico, a Piombino doveva tornare a colare acciaio: ha chiesto un anno e mezzo di proroga e mai presentato neppure il piano.

Eeppure sempre tramite Carrai hanno chiesto una commessa ad Rfi per fornire acciaio per le rotaie, che garantirebbe lavoro per i prossimi anni. "Ma come facciamo a mantenere questa commessa se abbiamo gli impianti fermi e non li matuneniamo?" - ci dice il segretario Uilm Fusco - "a questo punto abbiamo paura che addirittura Jindal possa acquisire la commessa con accordo col governo italiano, e poi farla nei suoi stabilimenti indiani".

In ilva Jindal avrebbe dovuto investire 4 miliardi di euro. A Piombino in tre anni non è riuscita a fare un investimento di 500 milioni per un forno elettrico.

Con la differenze che con l'arrivo di Mittal in Ilva per la prima volta dopo 6 anni di totale fermo del piano ambientale e degli investimenti in mano pubblica (commissari nominati da politica e Legambiente), e i famosi decreti utili a posticipare scadenza del cronoprogramma, solo con il ritorno del privato in ilva era finalmente partito il piano con l'attuazione delle prescrizioni tra cui la più importante imposta da Calenda al nuovo acquirente: la copertura dei parchi minerari, che da soli costano quanto il forno elettrico mai costruito di Piombino.

Nel frattempo Carrai al Mise dice che da quando è in italia Jindal ha perso 60 milioni e chiede allo Stato 280 milioni di euro che gli permetterebbe di costruire il forno elettrico, e una sistemata ai treni di laminazione. Ovviamente con l'utilizzo di altri 5 anni di cassa integrazione e l'abbattimento del costo energetico per il forno elettrico.

Si riapre la crisi industriale, mai chiusa. Il governo Conte tira fuori il cappello dal cilindro. Interverrà Invitalia. Con uno stanziamento di almeno 30 milioni per il solo revamping dei tre treni laminatoi.

Il 14 settembre il sottosegretario Todde ha annunciato l'avvio della due diligence da concludere entro due mesi che porterà alla definizione del valore del sito produttivo di Piombino e dunque della cifra che Invitalia dovrà riconoscere a Jindal per l'ingresso nel capitale.

Poi seguirà definizione di un piano industriale condiviso col governo, e quello occupazionale coi sindacati. Si spera (come per Taranto) non anche quello delle compensazioni con gli enti locali.

Esattamente come in Ilva è già avvenuto un anno fa, con la firma del nuovo piano industriale Invitalia-ArcelorMittal a dicembre 2020 con i ministri Gualtieri e Patuanelli. È passato un anno, e di quel piano non è stato messo neanche un bullone. E non si sa come mai il nuovo ministro Giorgetti già vuole cambiarlo. Nel frattempo mentre la domanda di acciaio è alle stelle, Ilva tiene gli impianti fermi e mette gli operai in cassa integrazione.

Questo hanno paura i sindacati che avvenga anche a Piombino. "Noi siamo favorevoli all'ingresso dello stato"- ci dice Lorenzo Fusco- "ma se è un effettivo piano industriale concreto di rilancio, troppo facile metterci in cassa interazione e chiudere gli impianti. È dal 2014 che di duemila operai, almeno 700 sono fermi. Ma come si fa a chiudere l'unico impianto che fa acciaio per rotaie proprio alla viglia del Pnrr che ha nelle infrastrutture tra i suoi settori più importanti di investimento? Noi abbiamo paura - ammette il sindacalista della Uilm- che se arriva Invitalia chiudiamo per sempre e restiamo conigli ammortizzatori sociali a vita. Forse al governo va bene, ma noi vogliamo lavorare. Del resto lo stesso Carrai-ci racconta Fusco- ha ammesso che gli indiani non stanno fornendo la documentazione agli advisor di Invitalia per la diu diligenze".

Il passaggio dello stato a Piombino non è visto di buon occhio neppure da Federacciai, che invece ne ha accolto favorevolmente l'ingresso in Ilva (seppur per loro limitato nel tempo).

"Va salvaguardato con coraggio- ha detto il presidente Banzato- ciò che è strategico, ma vanno abbandonate con altrettanto coraggio le attività che sono fuori mercato. In questi casi le energie e le risorse vanno concentrate per trovare soluzioni diverse, vere e di mercato, per risolvere i problemi sociali ovvero per dare una risposta produttiva alle persone che al termine del processo di ristrutturazione dovessero rimanere senza lavoro.

Non capisco cosa vuole fare veramente a Piombino Jindal - ha detto Banzato- anche perchè in tre anni non abbiamo mai avuto, come Federacciai, l'occasione di incontrarlo e di confrontarci con lui e con i suoi collaboratori. Quello che posso dire si riferisce pertanto esclusivamente alla lettura della rassegna stampa e negli ultimi mesi, e l'evocazione di un coinvolgimento di Invitalia, desta in tutti noi grande preoccupazione.

I problemi sociali - ha ribadito il numero uno di Federacciai- vanno rispettati e per farlo seriamene vanno abbandonate le attività fuori mercato e indotte nuove intraprese produttive che rispondano alle esigenze reali della domanda".

Il rischio infatti è che aiuti di stato droghino ancora il mercato, togliendo materia prima alle altre acciaierie italiane, e soldi ai contribuenti, per piani industriali lontani dal raggiungimento del break even point. Cosa che ovviamente vale anche per ilva.

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Annarita Digiorgio