Senza fabbriche né lavoro, inutile discutere di politiche attive
L'Italia vive una crisi occupazionale decennale dovuta all'incapacità di aumentare la produttività e di far funzionare il circuito di investimenti pubblico-privato. Tuttavia, anche la storia delle politiche attive è diventata materia di burocrati. Già perché si possono fare tutti gli incroci di dati e corsi di formazione del mondo, ma senza industria, senza ricerca e sviluppo non tornerà l'occupazione.
È notizia della scorsa settimana che Exor e il gruppo Marcegaglia sono tra i finanziatori internazionali che hanno partecipato al round di finanziamento da 105 milioni di dollari lanciato dalla societa' svedese H2 Green Steel (H2GS), impegnata nell'accelerare la transizione verso una produzione di acciaio più sostenibile. H2GS costruirà a Boden, in Svezia, la prima acciaieria al mondo completamente green, che sarà alimentata solo da idrogeno verde. Un'operazione finanziaria ed industriale intelligente, che evidenzia come una parte del sistema produttivo italiano abbia ancora la capacità di investire nell'innovazione, spesso più all'estero che sul territorio. Un paradosso se si pensa, sempre restando all'acciaio, alla ridotta capacità produttiva di impianti come Ilva e Magona, controllati fino ad oggi da gruppi stranieri ed utilizzati come arma strategica per il controllo dei prezzi. Oppure se si guarda all'impotenza del sistema industriale del Paese di fronte al vertiginoso rialzo delle materie prime.
I colli di bottiglia nel reperimento di queste ultime possono danneggiare in profondità una economia di trasformazione come quella italiana e mostrano come la debolezza dell'industria pesante, alimentata da scelte politiche e manageriali discutibili, si paghi nel lungo periodo. Un discorso che ci riporta al problema dell'occupazione e alla sua relazione con l'industria. L'Italia vive una crisi occupazionale decennale dovuta alla grande crisi del 2008-2011, alle pregresse trasformazioni dell'economia globale (crisi dei distretti e delocalizzazione), all'incapacità di aumentare la produttività e di far funzionare il circuito di investimenti pubblico-privato. Da ancora più tempo si parla della trasformazione del welfare in politiche attive, percorsi di formazione volti alla riqualificazione e al reinserimento nel mercato di chi ha perso il lavoro. Tuttavia, anche la storia delle politiche attive è diventata materia di burocrati e legulei, legati più al mondo delle idee e della carta che a quello della realtà. Già perché si possono fare tutti gli incroci di dati e corsi di formazione del mondo, ma senza industria, senza investimenti, senza ricerca e sviluppo non tornerà il lavoro. E non tornerà soprattutto per coloro che perdono il posto in età avanzata e che sono parte di una popolazione che, a differenza di quella americana ad esempio, è molto restia a spostarsi altrove per lavorare. Dunque la crisi del lavoro, che è figlia delle difficoltà di produzione in Italia e della crescita delle piccole imprese, non si risolverà con un grande piano ministeriale o demandando alle regioni l'erogazioni dei sussidi. Con questo problema il sistema paese sarà a breve chiamato a fare i conti poiché, che sia a settembre o a gennaio, saremmo costretti a sospendere il blocco dei licenziamenti e a fronteggiare una piccola ondata di disoccupazione. Ciò non significa naturalmente che le politiche attive non possano avere un ruolo importante nel recupero economico del paese, ma vanno deburocratizzate e affidate alle istituzioni locali. E per queste s'intendono non soltanto i Comuni o le unioni di Comuni, già esistenti per gli acquisti pubblici ad esempio, ma anche le università e le scuole. Servono progetti ad hoc, che rispecchino le differenze geografiche e produttive delle tante aree del paese, legati a programmi di sviluppo, di ricerca, di re-industrializzazione e professionalizzazione dell'artigianato. Il rapporto tra amministrazione e industria deve diventare diretto per promuovere investimenti e lavoro. L'amministrazione va spinta verso i livelli più bassi del governo e portata a domicilio dei lavoratori e delle imprese. Lo Stato centrale, al contrario, più che preoccuparsi delle procedure e dei piani dovrebbe costruire nuovi vettori per gli investimenti. E proprio su questo fronte c'è molto da fare perché soltanto con una iniezione di capitale può ripartire l'impresa e, di conseguenza, il lavoro. Non soltanto quelli pubblici, previsti del Recovery plan, ma anche quelli privati. Mobilizzare i capitali fermi sui conti correnti o in proprietà immobiliari improduttive è vitale per far affluire denaro verso le imprese. Serve una fiscalità di vantaggio per chi effettua questo genere di investimenti, per chi si assume il rischio della partecipazione azionaria. Un aumento dei capitali investiti, progetti congiunti tra pubblico e privato per lo sviluppo delle infrastrutture ed una formazione flessibile, concreta e localizzata sono l'unico modo per permettere alla società italiana di tornare vitale. E qui, dunque, cade qualche suggerimento per il Recovery Plan che in Italia, a differenza di altri paesi, è diventato un calderone in cui infilare tutto. I rischi di dispersione delle risorse in micro-politiche sono elevati. La Presidenza del Consiglio dovrebbe promuovere un'opera di razionalizzazione fondata su tre grandi pilastri: investimenti (green, digitali e generali) per le industrie, la ricerca applicata e le infrastrutture; una riforma della pubblica amministrazione che generi semplificazione e ringiovanimento della burocrazia; politiche attive disintermediate e vicine alle comunità locali. Tutto il resto rischia soltanto di appesantire l'azione delle riforme per pagare le politiche clientelari dei partiti e dei gruppi di interesse. Perché c'è un comandamento da tenere bene in mente: senza industria e senza investimenti non può esserci ritorno al lavoro.