Gianluigi Gabetti: "Kissinger mi disse: questa è l’era dell’avidità. Aveva ragione. Ma ne usciremo"
Economia

Gianluigi Gabetti: "Kissinger mi disse: questa è l’era dell’avidità. Aveva ragione. Ma ne usciremo"

Ha dedicato una vita alla famiglia Agnelli. Traghettando la Fiat dall’Avvocato a John Elkann e Sergio Marchionne. Ora assicura: il gruppo ce la farà.

Del capitalismo penso quel che Winston Churchill pensava della democrazia: è un sistema pieno di difetti ma non ne conosco uno migliore». «La famiglia Agnelli non la ricordo più compatta di oggi, animata da un desiderio di continuità». «Con l’avvocato Agnelli e il dottor Umberto la Fiat era forse più italiana, ma lo era in un mondo diverso, dove c’era l’italianità della Fiat e la francesità della Peugeot, per capirci, e le multinazionali erano viste come soggetti pericolosi.

Con la globalizzazione è cambiato tutto, ma la Fiat acquisendo la Chrysler sotto la guida di Sergio Marchionne ha posto la premessa per poter resistere nel mercato globale». Occhi azzurri e capelli candidi, maniere gentilissime e tono pacato, Gianluigi Gabetti, presidente d’onore della Exor, holding della famiglia Agnelli, ha lavorato a tempo pieno fino a pochissimo tempo fa, fino a oltre 80 anni d’età: «Non me ne rammarico, ma se mi reincarnassi mi piacerebbe dai 65 anni in poi lavorare per una fondazione filantropica».

A 19 anni ricevette un invito perentorio del generale Wolf, che guidava le truppe d’occupazione tedesche a Torino, di mettersi a disposizione come interprete (conosceva bene il tedesco), ma rifiutò e quando venne chiamato alla leva insieme al fratello e al padre visse alla macchia e sopravvisse per miracolo ai rastrellamenti, fino a unirsi con i partigiani: «Ho partecipato solo sporadicamente a operazioni a fuoco, ma certo anche la nostra attività contribuì a tenere impegnate le truppe tedesche». La sua militanza è stata quella per il capitale, di cui è stato però più che un partigiano un vero sacerdote. Attento ai riti, ma anche all’etica. Quella che oggi scarseggia.

Dottor Gabetti, si è mai rammaricato di avere dato così tanto a un capitalismo che non ha fatto che degenerare?

Il capitalismo si è seduto, deve sapersi rinnovare, cercare nuove forme di espressione, legate alla produzione e alla distribuzione dei beni, nuovi ambiti di impegno.  

Per esempio?
Ci sono possibilità d’iniziativa immense nel tentare di recuperare il degrado del pianeta.  Mia figlia Cristina, ecologista appassionata, me lo ricorda sempre: credo che l’umanità abbia sfruttato all’inverosimile questo pianeta, l’abbia inquinato oltre ogni limite. Sarebbe necessaria una finanza da orientare al recupero, purché intervengano gli stati, i governi, con programmi seri.

Keynesiano?

Si può investire molto nell’ambiente, e non è detto che sarebbero investimenti improduttivi.

E invece questo capitalismo si è seduto...  

Servirebbe una sorta di rieducazione vivace e generale che risvegliasse il sistema da una preoccupante staticità.

Perché?

Oggi l’innovazione tecnologica è più promettente che mai. Però se non sarà finanziata nel modo giusto non funzionerà.  

E qual è il modo giusto?

Mi disse Raffaele Mattioli, presidente della Comit, quando gli chiesi che prospettive di crescita avrebbe avuto un certo piano industriale solido, fondato sull’innovazione, concreto nelle previsioni: «La finanza segue».  Ecco, il capitalismo per il quale ho lavorato tendeva a finanziare l’industria manifatturiera.  Nell’insieme quest’impostazione ha funzionato e potrebbe ancora funzionare bene, se si finanziassero adeguatamente le punte avanzate del mondo industriale e dei servizi mediante un impegno mirato delle nuove tecnologie, con enormi risparmi.  

Ma qual è il virus che sta intossicando l’economia globale?

Henry Kissinger, al quale rivolsi questa stessa domanda, mi disse: «Ti rispondo da storico, nella storia questa fase passerà come l’era dell’avidità, della bramosia di denaro».

Di chi la colpa?

Hanno cominciato gli americani, dal giorno in cui Bill Clinton abrogò il Glass Steagall act, che impediva alle banche commerciali di essere anche banche d’affari. Da quel momento dilagò la deregulation. Non dico che si debba ripristinare quella legge, pensata nel 1929, ma qualcos’altro che comunque metta le briglie alle anomalie della finanza speculativa. Se il valore dei derivati rappresenta il decuplo del pil mondiale, significa che la speculazione ha rotto ogni freno. Nella fase di passaggio da George Bush a Barack Obama ho avuto davvero l’impressione, e tra i primi, che la finanza globale fosse fuori controllo. Obama aveva promesso di intervenire, ma non ha mantenuto l’impegno.

Perché?

Non sapeva di finanza, ha ingaggiato Lawrence Summers e Timothy Geithner, che erano però fra i corresponsabili della crisi.

E i registi occulti? Quella cupola tra grandi banche d’affari come la Goldman Sachs di cui si favoleggia?

Non credo ci sia stata qualche istituzione che abbia responsabilmente scatenato la crisi. Ci sono stati molti operatori che hanno agito andando allo sbaraglio. Ho operato all’epoca in cui c’era ancora la Chase di Rockefeller, la Lazard di Meyer, la Goldman Sachs di White e Weinberg, non posso dare giudizi sugli altri. Però alcune di quelle grandi case hanno dato prova anche negli ultimi anni di forte vitalità, per esempio finanziando nuovi stati, come quelli asiatici.

E l’Europa?

Era inevitabile che venisse contagiata. La speculazione ha quasi travolto i mercati valutari.  E si è creata molta confusione. Oggi più che mai l’Europa ha bisogno di un processo di unificazione politica. Uscire dall’euro non è la soluzione: c’è sempre chi spera di salvarsi con la fuga, ma sarebbe una fuga disordinata e distruttrice.

Eppure l’Unione è in crisi acuta, perché?  

È venuta meno una delle ragioni principali che aveva spinto quelli della mia generazione a volere l’Unione Europea, cioè la prevenzione del rischio di future guerre.

Addirittura...

Scongiurare la guerra era l’ossessione di Adenauer, De Gasperi e Schumann, i tre tedeschi, come li chiamarono, includendo De Gasperi nella definizione, ai quali si deve il trattato di Roma. A essi seguì Helmut Kohl.

Anche lei teme che senza Unione Europea si rischierebbe la guerra?

Ricordiamoci quello che è successo nei Balcani.

Ma i tedeschi si rassegneranno a sostenere il sistema?

Si fidano poco dei latini, è nella loro natura, nella loro storia la tendenza è all’egemonia. Se hanno la mano vincente, la giocano fino in fondo, e sulle guerre del passato hanno molte responsabilità storiche. Ma s’è visto anche che nella recente 24 ore di Bruxelles Mario Monti ha dato prova di resistenza e in parte li ha convinti.

Quindi l’Europa si salverà?

Non ci sono alternative, sono portato a ritenere di sì.

Avrebbe mai immaginato la crisi del 2008, da cui in fondo non siamo mai usciti?

Ero in vacanza in America con la famiglia e conversando con alcuni amici, non particolarmente intimi, mi vidi offrire grandi somme di denaro a condizioni stracciate che avrei secondo loro potuto impegnare in operazioni immobiliari di cui non vedevo la ragione, e rifiutai. Ma capii che usare a costo irrisorio tanto denaro poteva essere per molti una tentazione irresistibile. Mi allarmai molto.

E che cosa fece?

Ne parlai con l’ambasciatore americano in Italia, Ronald Spogli, gli chiesi cosa stesse succedendo. Lui si mostrò meravigliato. Tempo dopo, quando lasciò l’Italia, mi diede atto di avere dato tempestivamente un allarme che era rimasto senza seguito. All’epoca aveva condiviso le mie preoccupazioni anche Paul Volcker, l’ex presidente della Federal Reserve, e lui si limitò a dirmi che sui mercati predominava un certo tipo di operazioni che avrebbero dovuto essere vietate da sempre.

C’è la volontà vera di rientrare da questa crisi?

Molti lo vogliono, ma pochi sanno come fare. E moltissimi ci sguazzano.

Colpa dei banchieri troppo giovani?

Mah, ho visto vecchi banchieri fare tali fesserie...

Colpa delle retribuzioni stratosferiche?

I compensi smisurati danneggiano una società spiritualmente molto più del danno materiale che cagionano. Creano un grandissimo disagio sociale, disperazione in taluni ed emulazione malsana in altri.

Ne usciremo?

Anche la crisi del ’29 ebbe una sua conclusione. Ci sarà un ritorno a una situazione ordinata, ma sarà lento.

E l’Italia?

La società italiana mi preoccupa per il senso di resa da parte di molti. Ma se, sulla scia del governo Monti, si ritrovasse più coerenza nel modo di ragionare, il nostro Paese non sarebbe da buttar via, tutt’altro. Se si riuscisse a dare seguito a certi recenti programmi, si potrebbe andare lontano.

Il problema-chiave?

La scuola è uno dei problemi più grossi anche perché coinvolge soprattutto i giovani: non ci vuole molto per farne uno strumento di crescita. Dovrebbe essere la palestra del merito, il dramma da noi è stato quando al merito si è sostituita la raccomandazione, indice di corruzione nei costumi delle famiglie.  Bisogna ridare al voto il significato di merito, se è meritato deve comportare il diritto all’esenzione dalle tasse. Non conosco sistema più onesto e promettente che consenta a chi è nato povero di diventare ricco.

Non ci dirà che lei non ha mai fatto o accettato raccomandazioni.

Mai soltanto a titolo di amicizia, tantomeno indiretta. Ho fatto in tutta la mia vita poche decine di segnalazioni, solo quando conoscevo e stimavo personalmente gli interessati e sarei stato pronto ad assumerli io stesso alle mie dipendenze.

Un metodo un po’ paternalista, no?

Sarà paternalista, ma non deteriore: Mattioli aveva il suo metodo, Adriano Olivetti il suo.

E l’Avvocato?

L’Avvocato Agnelli metteva una particolare carica di sentimenti nei rapporti umani, si spendeva per le persone, nel suo modo eclettico e comunque assai raramente.

Che rapporto avevate?

Al di fuori della famiglia e di un paio di amici di una vita, l’Avvocato è stato certamente la persona alla quale ho dedicato più tempo e passione professionale, ricevendone in cambio molto, compreso il privilegio di essere presente vicino a lui in situazioni importanti per il gruppo ma anche per il Paese. Stare con lui era interessantissimo, e in qualche modo si lavorava sempre.

Lavoravate sempre?

Lui non poteva distaccarsi mai del tutto dal suo ruolo, e quindi dal suo lavoro. Né io da lui.

Vi davate del tu?

Mai: ci davamo del lei, l’ho sempre chiamato presidente.

Cosa vi univa?

L’Avvocato era portato a premiare la dedizione... Avevamo un ottimo rapporto. Che si rifaceva forse a esperienze comuni. Aveva fatto la guerra, era andato in Africa, in prima linea. Alla prima uscita sul campo di operazioni il colonnello che stava nel primo carro della sua fila era stato falciato da un aereo inglese, l’Avvocato era appena dietro... Io ebbi la mia esperienza come partigiano nel basso Monferrato.

Si sente un eroe?

Assolutamente no.

Come definirebbe l’Avvocato?

L’italiano più significativo nel mondo, durante il secolo breve, cioè la seconda metà del Novecento. Quando vivevo a New York e avvisavo del suo arrivo David Rockefeller, Kissinger, Bill Paley della Cbs, questi personaggi – che di regola davano appuntamento da un mese all’altro – convergevano dalla sera alla mattina, volevano incontrarlo e sentire da lui la voce dell’Europa.

L’Avvocato ha guidato una dinastia imprenditoriale. Un modello superato?

Le imprese a radice familiare sono tuttora le più diffuse, le più forti. Ma ve ne sono anche di tipo diverso. Guardi Buffett, guardi Gates. Si parla di loro, non dei loro figli. Gates è uscito dall’operatività di Microsoft, ha costituito una fondazione, forse è un modo più evoluto di procedere.

Ma l’Avvocato credeva nella dinastia...

L’Avvocato aveva la precisa volontà che un suo discendente potesse presiedere la Fiat. E questo si è avverato: dopo la scomparsa di Giovanni Alberto Agnelli, scelse John Elkann come suo successore e lo preparò personalmente all’incarico. Lo ha tenuto vicino a sé in casa, me lo ha fatto conoscere, a mia volta ho riscontrato che aveva grande volontà e capacità di impegno, siamo stati vicini alcuni anni, finché ho ritenuto maturo il tempo di restituire alla famiglia la responsabilità che avevo ricevuto e mi sono ritirato serenamente.

John Elkann crede a una Fiat controllata dalla famiglia?

C’è un forte desiderio di continuità e la famiglia è quanto mai compatta.

E Marchionne, con quello stile di rottura che fa arrabbiare sindacati, politici e ora anche la Volksawagen?

Il dottor Umberto lo aveva voluto nel consiglio di amministrazione Fiat, io e John Elkann lo scegliemmo per sostituire Giuseppe Morchio che non volle restare se limitato al ruolo di amministratore delegato. Con Sergio è scoppiata una vera amicizia, passavamo ore insieme, ho capito che è un uomo geniale.  Posso solo sperare che, insieme a John, abbiano pieno successo.

Lo avranno?

Sì, la Fiat può farcela, aveva ragione Marchionne nel perseguire una maggiore massa critica. Ora ce l’ha.

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Sergio Luciano