Nasce la società pubblica per il «Dri». Per ora ha solo soldi e cda.
Invitalia mette 35 milioni per una nuova società con lo scopo di decarbonizzare l’acciaio italiano. Come, quanto e quando si vedrà
E’ stata costituita la DRI d’Italia Spa, la società totalmente controllata da Invitalia che avrà l’obiettivo di realizzare, per la prima volta in Italia, un impianto di produzione del “preridotto” (Direct Reduced Iron), il bene intermedio utilizzato per la carica dei forni elettrici per ridurre la produzione di acciaio a ciclo integrato con il carbon-coke.
Nel consiglio di amministrazione sono stati nominati: Franco Bernabè (Presidente) che è anche Presidente di Acciaierie d’Italia, Stefano Cao (AD) già nel cda Adi, e da Ernesto Somma (da tempo tramite Invitalia attivo sul dossier Ilva), Tiziana de Luca e Paola Bologna.
La società ha un capitale sociale iniziale di 35 milioni di euro, mediante fondi assegnati dal Mef, che può essere aumentato fino a 70 milioni che è la cifra messa a bilancio per questo progetto attraverso il decreto Grandi Navi del 2021. Quel decreto infatti autorizzava Invitalia alla costituzione di una società, allo scopo della conduzione delle analisi di fattibilità, sotto il profilo industriale, ambientale, economico e finanziario, finalizzate alla realizzazione e alla gestione di un impianto per la produzione del preridotto – direct reduced iron. Il capitale sociale della società veniva determinato entro il limite massimo di 70.000.000 euro, interamente sottoscritto e versato da INVITALIA, anche in più soluzioni.
L’idea di creare un impianto di produzione di dri a Taranto rientra nell’accordo stipulato tra Invitalia e ArcelorMittal nel dicembre 2020, e firmato insieme a Domenico Arcuri dagli allora Ministri Gualtieri e Patuanelli sotto il governo Conte due.
Con quell’accordo venne presentato un piano ai sindacati che prevedeva una produzione a 8 milioni di tonnellate di acciaio al 2025 attraverso il revamping dell’altoforno 5 e la costruzione di due forni elettrici. A latere la costruzione fuori perimetro aziendale di una fabbrica di dri.
L’idea di avere un impianto del genere in Italia non è certamente recente, ma un vecchio pallino di Federacciai. Gia nel 2014 avevano progettato di crearla a Piombino.
All’epoca la proposta dell’allora Presidente Antonio Gozzi era quella di costituire una società consortile partecipata dagli stessi imprenditori per realizzare un'impianto di preridotto dalla capacità di 2,5 milioni di tonnellate di produzione annua. L'impianto - si legge nel documento di allora- potrebbe occupare 150 persone; l'investimento sarebbe sui 450 milioni di euro. Sorgerebbe a Piombino in un'area di proprietà della Lucchini, e si baserebbe su una nuova tecnologia che permette di impiegare minerale preridotto nei forni, mixato a rottame tradizionale. Tra i vantaggi, l'abbattimento considerevole delle emissioni di CO2 e una migliore qualità (grazie al minor utilizzo di rottame non di primissima qualità) della colata e quindi del prodotto finale. Avrebbe invece alti costi operativi per i maggiori costi per l'utilizzo di gas. La produzione di preridotto-spiegava già allora Federacciai- rappresenterebbe un importantissimo supporto all'installazione di un forno elettrico a servizio della siderurgia a Piombino, ipotesi che sembra rientrare nella prospettiva strategica del sito "così come esplicitato nelle offerte dei due player (Jindal e Cevital) che hanno manifestato l'interesse a rilevare gli impianti". "Si tratta di una scelta strategica - spiegava nel 2014 il presidente di Federacciai, Antonio Gozzi - che dimostra la lungimiranza degli imprenditori siderurgici, consapevoli che i costi dell'energia e del rottame rappresentano sempre più, anche in una prospettiva futura, fattori critici e penalizzanti dal punto di vista della competizione globale”.
Lungimiranza che però è rimasta nelle brillanti e visionarie idee dei siderurgici italiani. Perché da allora a Piombino non è mai stato fatto nessun forno elettrico, la fabbrica è ferma nonostante l’ingresso di Jindal, nuovamente in crisi e affidata ai miraggi di Invitalia, e l’impianto di produzione di dri viene dato ancora come soluzione innovativa ma per Taranto e chissà quando.
I siderurgici però questo impianto di dri lo volevo anche perché la materia prima che oggi alimenta il cento per cento dei forni elettrici italiani (che a loro volta corrispondono al 90 per cento di tutte le acciaierie italiane) ossia l’acciaio rottamato, scarseggia e non produce acciaio di prima qualità. Per questo oggi un impianto di dri in Italia non sarebbe utile solo per Taranto. Anzi. Sicuramente l’Ilva non potrebbe andare solo a dri.
In ogni caso oggi abbiamo la società che deve realizzare questo impianto, anzi questa nuova fabbrica. Il piano industriale ancora non lo conosciamo. Nè sappiamo a chi darà il compito di farlo. In Italia abbiamo l’eccellenza mondiale in materia: Danieli che con Tenova ha brevettato una tecnologia venduta in tutto il mondo: ENERGIRON. La maggior parte degli impianti di dri e forni elettrici del mondo vengono oggi costruiti da Danieli e Tenova.
Gia a febbraio 2021 Danieli firmò un accordo quadro con Leonardo e Saipem per proporsi assieme in progetti di riconversione sostenibile di impianti primari energy intensive nel settore siderurgico, sia in Italia che all’estero.
Il primo luglio 2021 Danieli ha poi presentato alla Camera dei Deputati un progetto nei minimi dettagli per la trasformazione del siderurgico di Taranto.
Ma non si fece attendere la risposta di Arcelormittal che stipulò un memorandum d’intesa con Fincantieri, e Paul Wurth Italia per lo stesso obiettivo.
Nell’aria si annusa che è iniziata una guerra per accaparrarsi i fondi dedicati dal Pnrr: almeno due miliardi.
L’idea è concreta, come abbiamo visto non nuova, e ci vorranno anni per realizzarla.
Ma soprattutto rispetto al passato ha una nuova grossa incognita in più. Il gas. Finora infatti non si sono mai fatti impianti di dri in Europa perché la loro esistenza è limitata ai Paesi con forte estrazione di gas.
Ma se finora era limitata solo al costo, oggi sarebbe vincolata anche dalla disponibilità. Senza considerare ciò che vorrebbe dire dipendere dai Paesi produttori di gas non solo per il riscaldamento e le piccole imprese, ma anche per il più grande siderurgico d’Europa.
E se un domani al posto del gas si potrà utilizzare idrogeno, è un’ipotesi da ipotizzare, progettare e rendere possibile oggi. Ma da realizzare chissà quando sarà disponibile in gran quantità e a un prezzo accessibile.
Arcormittal sperimenterà dri da idrogeno ad Amburgo per 100 mila tonnellate di acciaio l’anno.
In Austria il colosso giapponese Mitsubishi Heavy Industries sta realizzando la più grande acciaieria al mondo con l’idrogeno al posto del carbone nel siderurgico, di proprietà della Voestalpine, con una produzione di 250mila tonnellate di acciaio “pulito” all’anno.
A Taranto per arrivare a un punto di equilibrio con 10 mila operai con gli impianti attuali a carbone servivano 8 milioni di tonnellate di produzione l’anno. Al netto degli investimenti per i nuovi impianti. Con idrogeno e gas i costi lievitano ulteriormente. E siamo ancora molto lontani dai livelli di produzione necessaria. Insomma l’idea c’è e la possibilità di farla anche. potrà un domani alimentare parte del siderurgico di Taranto. Quello che ancora non sappiamo se a maggio riuscirà a completare l’operazione di vendita e aumento della quota societaria pubblica. Nel frattempo la linea di comando resta sempre la stessa: far ripartire Afo 5.