Che cosa succede alla Fca del dopo-Marchionne
La frenata del mercato e la mancanza di nuovi prodotti si fanno sentire sugli stabilimenti italiani del gruppo. E si torna a ventilare la vendita di Alfa-Maserati
Rimpiangeranno Marchionne. Lo rimpiangerà chi lo accusava di aver trasformato la Fiat in un gruppo americano, chi gli rimproverava di aver piegato il sindacato, chi di non aver mantenuto le promesse sul rilancio della produzione in Italia. Rimpiangeranno Super-Sergio, ora che il cielo sopra il mercato dell’auto si è fatto scuro e sugli stabilimenti italiani si allungano le ombre di una nuova crisi.
La guerra commerciale scatenata dal presidente Usa Donald Trump ha fatto lievitare i prezzi di acciaio e alluminio mentre il rallentamento dell’economia mondiale ha frenato le vendite di automobili, dagli Stati Uniti alla Cina. A questo cocktail indigesto di materie prime più care e mercati indeboliti si è aggiunto in Europa il complicato passaggio a un nuovo regime di omologazioni, il Wltp, che ha spinto le case produttrici a liberarsi delle vetture registrate con il vecchio sistema ingolfando così i saloni dei concessionari. E infine in Italia è in arrivo l’ecotassa, che da marzo colpirà le auto che emettono più di 160 grammi di Co2 al chilometro con un’imposta da 1.100 a 2.500 euro, e premierà quelle che inquinano di meno (non oltre i 70 grammi di Co2) con un bonus da 1.500 fino a 6 mila euro. Un provvedimento che per la verità colpisce quasi solamente i modelli costosi, ma che già ha fatto temere un eventuale taglio al piano Fca da 5 miliardi di investimenti.
Lo scenario che si presenta davanti al successore di Marchionne, scomparso il 25 luglio scorso, non è insomma dei più incoraggianti. Michael Manley, soprannominato Mike, è diventato amministratore delegato di Fca dal 21 luglio, quando si è capito che le condizioni di Marchionne erano gravissime. Inglese, ex Daimler-Chrysler, il manager è alla guida della Jeep da nove anni. Ha due grandi meriti: il primo, come ricorda l’analista Martino de Ambroggi di Equita, è che «ha più che raddoppiato le vendite dello storico brand americano da 730 mila nel 2013 a 1,7 milioni di auto nel 2018 trasformandolo in un marchio globale, il pilastro del gruppo Fca (che complessivamente produce 4,7 milioni di vetture)»; il secondo, che è uno dei pochi alti dirigenti ad aver resistito così a lungo alle sfuriate di Marchionne.
Per ora Manley si è mosso sul solco tracciato dal suo predecessore, rivedendo al ribasso le stime sul 2018 ma portando a casa un ottimo accordo per la vendita di Magneti Marelli per 6,2 miliardi. Chi ha avuto l’occasione di incontrarlo gli riconosce una grande preparazione sul prodotto e sul mercato americano. «Ma gli mancano la competenza finanziaria di Marchionne e il suo carisma» sottolinea un analista che preferisce non essere citato, «la capacità di Sergio di dire una cosa e portarla a termine con estrema decisione».
Adesso sì che Fca rischia di essere ancora di più americano-centrica, con un capo cresciuto a pane e Jeep. Dei circa 115 miliardi di euro di fatturato, il 62 per cento è realizzato nel Nord America, dove Ram e Jeep vanno molto bene, il 19 per cento viene dall’Europa e il 7 dall’America latina. Fino al 2017 le attività europee generavano margini positivi, ma la piega che ha preso il mercato penalizza il Vecchio continente e di conseguenza gli stabilimenti italiani. La parte americana di Fca continua a macinare utili garantendo l’80 per cento circa dei margini del gruppo. L’America latina si sta riprendendo ma porta utili ancora modesti mentre l’Europa torna a perdere e anche Maserati ha visto la propria redditività precipitare dal 14 per cento a quasi zero. Complessivamente, comunque, il gruppo è in utile con un profitto netto intorno ai 4-5 miliardi.
Il peggioramento della situazione di Fca in Europa è dovuta anche ad alcuni errori della gestione Marchionne e allo sbandamento successivo alla sua morte: «Mancano nuovi prodotti» sostiene per esempio Ferdinando Uliano, segretario nazionale del sindacato Fim-Cisl. E in effetti il gruppo non ha lanciato nel 2018 alcun modello in Europa e affronta il nuovo anno completamente «scarico» di novità. Avrebbe anche commesso qualche errore nella commercializzazione di Alfa e Maserati negli Usa. E poi è decisamente indietro nella elettrificazione della gamma, dove mancano completamente vetture ibride.
Uno dei grandi risultati di Super-Sergio è stato quello di trasformare l’Italia in una piattaforma produttiva per auto più costose e redditizie destinate ai mercati internazionali: dei sette impianti del gruppo sparsi nella penisola, quattro (Cassino, Grugliasco, Mirafiori e Modena) si sono concentrati su Maserati e Alfa Romeo mentre gli altri (Melfi, Pomigliano e Sevel) sfornano Jeep Renegade, Cinquecento, Panda e veicoli commerciali. Nonostante tutte le critiche lanciate al manager italo-canadese, nel 2017 gli stabilimenti italiani sono riusciti per la prima volta nel decennio a superare il milione di veicoli prodotti e a recuperare i livelli pre-crisi. Ora però la mancanza di nuovi modelli e il rallentamento del mercato si fanno sentire: secondo i dati della Fim-Cisl, nel 2018 la produzione italiana è calata del 6,8 per cento, con cadute del 30-50 per cento per gli impianti Maserati e del 26 per cento per quelli Alfa. Mentre continuano ad andare bene Melfi e Sevel. Il piano quinquennale messo a punto dai vertici di Fca prevede di alimentare le fabbriche italiane con la Cinquecento elettrica, la Jeep Compass e due nuovi suv Alfa e Maserati più vari restyling e ibridizzazioni.
La domanda è: visto che la famiglia Agnelli vuole ridurre l’esposizione della finanziaria Exor nel settore auto e visto che l’Europa torna ad essere la malata del gruppo, che destino avranno gli stabilimenti italiani? Le ipotesi sul futuro del gruppo sono innumerevoli: c’è chi immagina il matrimonio con Hyundai, chi con un produttore cinese, chi con l'americana Gm, che non è più in Europa dopo la cessione di Opel, oppure con la francese Psa assente negli Usa. Ma di raro nozze di questo tipo funzionano: perfino l’unione Renault-Nissan si è incrinata. Invece il progetto che avrebbe più chance in casa Fca è quello che riguarda Alfa e Maserati: vendere cioè i due marchi a chi vuole crescere nella fascia premium (per esempio la cinese Geely che ha già Volvo) e liberarsi in un colpo solo di quattro impianti italiani. Il problema è che un disegno del genere richiede tempo: oggi questi stabilimenti sono sotto-utilizzati. "Panorama" ha provato a individuare il livello di produzione ottimale per rendere le fabbriche appetibili a un eventuale acquirente: in totale, il marchio Alfa dovrebbe toccare i 200 mila veicoli prodotti mentre Maserati i 98 mila pezzi. Obiettivi che richiedono qualche anno per essere raggiunti. Ma non impossibili.