Il lavoro del futuro? L'artigiano
Andare a bottega per avere di che sfamarsi e poi diventare il divino artista. È la storia di Michelangiolo Buonarroti che approda tredicenne da Domenico Ghirlandaio, a sua volta uscito dalla bottega di Andrea del Verrocchio dove si formarono Luca Signorelli, Leonardo da Vinci, Sandro Botticelli, il Perugino. Raffaello Sanzio addirittura inventò i multipli d’arte mettendo a salario uno stuolo di apprendisti che riproducevano le sue creazioni. Quando ci vantiamo di essere la seconda manifattura d’Europa dimentichiamo che ciò che noi chiamiamo industria in larghissima parte è evoluzione dell’artigianato che parte dagli Etruschi e su su percorre i secoli fino a noi.
Lo sapeva benissimo Giacomo Becattini, economista fiorentino che ha studiato i distretti e insieme a Giorgio Fuà e ha spiegato come sia la vocazione dei territori la chiave del miracolo italiano. La globalizzazione ha travolto queste idee eppure l’Italia resta attaccata alle sue botteghe. Anche se la crisi picchia duro. Sono rimaste un milione e 450 mila imprese artigiane, ne abbiamo perse - registra la Cgia di Mestre - circa 410 mila in dieci anni. Eppure a loro in larga misura è affidata una possibile ripresa. Spiega Giulio Sapelli - già ordinario di Storia economica alla Statale di Milano - che dopo il Covid, dopo la deglobalizzazione, dopo i conflitti «siamo in un’economia della sopravvivenza e ci salveranno solo le piccole e medie imprese che sono le vere protagoniste dell’economia circolare». Lui è il presidente della fondazione Manlio e Maria Letizia Germozzi intitolata all’azione del primo rappresentante degli artigiani, quel Manlio Germozzi nato a Corridonia, in provincia di Macerata. Fondò l’associazione degli artigiani nel 1946: c’era la ricostruzione da portare avanti, c’era un lavoro da inventare. Moltissimi operai espulsi dall’industria bellica aprirono bottega e l’Italia del miracolo economico è stata fatta a mano! La Confartigianato ha compiuto quest’anno tre quarti di secolo di vita. Spiega ancora Sapelli: «Le imprese artigiane sono fondate sulla società naturale della famiglia e sulle relazioni tra persone, grazie a cui si controllano le reti delle macchine e i flussi della moneta. Continuano, al contrario delle grandi imprese, a vivere e a inventarsi continuamente nuove vite: una vita di resilienze continue e di nuove realizzazioni. Il perché di tutto ciò risiede nella storia, non delle imprese o dell’economia astrattamente intesa, ma dell’esistenza dei popoli del mondo intero».
Possibile che il piccolo sia l’antidoto allo scontro economico tra Stati Uniti e Cina, dove l’Europa pare avviarsi al ruolo di comprimario? Il presidente di Confartigianato Marco Granelli ne è convinto: «Rappresentiamo 700 mila imprese, l’artigianato nel suo complesso occupa 2,6 milioni di addetti e non riusciamo a trovare manodopera. Dobbiamo fare in modo che i giovani tornino a vedere il lavoro artigiano come una vera opportunità, anche in termini economici e di gratificazione personale. L’artigiano di oggi sa coniugare tradizione, innovazione, manualità e digitalizzazione e non è una specie in via d’estinzione, anzi, siamo tra i veri ambasciatori del Made in Italy».
Eppure le difficoltà ci sono. Il credito, i costi di produzione, soprattutto il Fisco che pesa troppo anche se si sono fatti passi avanti con le nuove leggi sull’apprendistato, con il sistema scolastico degli Its che formano giovani con nuove competenze. Dai giovani viene una speranza in parte certifica dal Censis nel suo ultimo «radar artigiano» pubblicato nel giugno scorso. Chi ha meno di 35 anni - scrive il Censis - cerca un buon lavoro che non è solo stipendio, ma anche ambiente favorevole, stabilità, stimolo creativo. «Da questo punto di vista quello artigiano è un buon lavoro». Perché c’è ancora una forte componente di umanizzazione sia delle mansioni che delle relazioni. Non a caso la Confartigianato ha lanciato lo slogan «intelligenza artigiana» contrapposta «all’idolatria dell’intelligenza artificiale».
All’81,8 per cento dei giovani piacerebbe avere un’attività, un’impresa o uno studio professionale in proprio. Per un terzo di questi - certifica ancora il Censis - è un progetto per cui sono già pronti a investire e rischiare. E qui si rende necessario operare per favorire la nuova impresa: la flat tax, l’accesso agevolato al credito, la sburocratizzazione sono i primi provvedimenti necessari. Ma avverte l’istituto di ricerca che l’artigianato è anche una risposta possibile al fenomeno dei Neet (i giovani che non studiano e non lavorano) visto che tre su quattro di coloro i quali non hanno specifica qualifica sarebbero disposti «ad andare a bottega». Perché? La risposta sta nell’alta considerazione che riceve il lavoro artigiano: qualità, tradizione, talento e abilità, creatività e italianità sono i valori che i più giovani riconoscono a queste imprese con percentuali che vanno da una metà a un terzo del campione. Sono incoraggianti le risposte al perché accetterebbero un lavoro in questo settore. L’85 per cento dice perché esalta le capacità individuali e libera la creatività, il 72,3 per cento perché dà il senso dell’imprenditorialità, il 67,9 ritiene che essere artigiano dia libertà perché «non c’è un padrone a cui devi rispondere» e il 59 per cento sostiene che quelli artigiani sono ambienti di lavoro più umani e con migliori relazioni. E la paga? Non pare il primo dei requisiti.
Eppure ci sono decine e decine di mestieri in via di estinzione. La lista l’ha stilata la Cgia, l’Associazione artigiani e piccole imprese di Mestre: pellettieri, valigiai, borsettieri, falegnami, impagliatori, muratori, carpentieri, lattonieri, carrozzieri, meccanici auto, saldatori, armaioli, riparatori di orologi, odontotecnici, tipografi, stampatori offset, rilegatori, riparatori radio e tv, elettricisti, elettromeccanici, addetti alla tessitura e alla maglieria, sarti, materassai, tappezzieri, dipintori, stuccatori, ponteggiatori, parchettisti e posatori di pavimenti. Tutti settori dove la domanda di manodopera, altissima e l’impiego assicurato, ma l’apprendista è sconosciuto.
Forse è lì che bisogna lavorare per cercare di crere un ponte tra domanda e offerta. Certo che l’appeal l’artigianato cerca di darselo. Sta lanciando attività come «l’arti-turismo», cioè trasformare le botteghe in luoghi dove chi arriva in visita di piacere va a fare esperienze integrando il lavoro, per esempio del falegname, con la scoperta dei luoghi. Una strategia che sarebbe piaciuta moltissimo a Giacomo Becattini che ha scritto appunto La coscienza dei luoghi come spiegazione del fenomeno economico. E come dimenticarsi che il capolavoro di Carlo Collodi, Pinocchio, parte dal sogno creativo del falegname Geppetto? Così come è impossibile passeggiare a Ponte Vecchio a Firenze e non avvertire che vive perché resistono le botteghe degli orafi. Il bello d’Italia è fatto a mano.