Moncler, il piumino che scalda la borsa
Remo Ruffini, padre della nuova Moncler
Economia

Moncler, il piumino che scalda la borsa

Remo Ruffini, padre della nuova Moncler: "La differenza tra noi e le altre aziende è che gli altri hanno un target, noi no"

Ruffini, per il Financial Times lei è un «Italian success» che spunta dalle ombre della crisi... «Ringrazio, ma la chiave del successo, mio e di altri, sta nell’aver capito già 10 anni fa che il mondo stava cambiando e occorreva aprirsi a un mercato globale, che è un crogiolo di razze e di cicli diversi. Nel 2008-09 l’America è stata un disastro, ma ci ha salvato il mercato italiano. E oggi l’America va a mille».

Dieci anni fa Jim O’Neill della Goldman Sachs coniava il termine Bric (Brasile, Russia, India, Cina) con motivazioni assai simili all’intuizione di Remo Ruffini da Como, classe 1961, sposato, due figli, padre della nuova Moncler: origini francesi, manualità e gusto italiano. E un mercato grande come il mondo (1.200 dipendenti, metà in Italia metà fuori), 122 negozi monomarca, di cui 19 nella grande Cina, un impero disseminato in 60 paesi, diviso in quattro aree, Italia, Europa, Asia-Giappone e Nord America, governato con la flessibilità che si richiede a un’azienda-mondo, figlia di un’intuizione: «La differenza tra noi e le altre aziende è che gli altri hanno un target. Noi no. La nostra ambizione è un mercato al 50 per cento dedicato ai ragazzi che usano lo skateboard, l’altro 50 alle signore che vanno alla Scala».

Sembrava una follia, 10 anni fa. Ma è stata un’intuizione vincente, come lo fu, anno 1953, quella di Lionel Terray, leggenda dell’alpinismo (nel 1950 aveva fatto parte della spedizione che aveva conquistato la vetta dell’Annapurna, il primo ottomila violato dall’uomo), che una mattina d’inverno si mise a osservare le strane giacche imbottite indossate sopra la tuta per proteggersi dal freddo dagli operai della piccola azienda che l’amico René Ramillion aveva aperto nei pressi di Grenoble, a Monestier de Clermont (da cui il nome Moncler). Pochi mesi dopo quelle giacche, opportunamente rivisitate da Terray, presero la via dell’Himalaya. Nel 1954 i conquistatori del K2, Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, vestivano i primi Moncler, così come, un anno dopo, lo stesso Terray nello strappo finale verso un altro ottomila, il Makalu.

Oggi la Moncler, la creatura dei «conquistatori dell’inutile», come ingiustamente si definì nella sua biografia Terray, sta per approdare in Borsa (la quotazione dovrebbe avvenire entro l’anno). Al secondo tentativo, perché nel 2011, anno di slavine finanziarie greche e di tormente di spread, Ruffini e i fondi soci presero atto che era meglio attendere stagioni meno tempestose e fermarono la quotazione. Due anni ben spesi, a giudicare dai numeri: il fatturato è passato dai 282,5 milioni di fine 2010 ai 489,2 del 2012, ultimo dato pubblico prima dell’offerta al mercato; da un ebitda di 90,6 milioni a 161,5 nel 2012. Mica male, visto che nel 2003, quando Ruffini rilevò dalla Finpart la vecchia Moncler già simbolo dei «paninari», le vendite non superavano i 50 milioni. Numeri che giustificano quella che potrebbe essere un’Ipo da 2 miliardi, o forse 3, se si considera che tutti i big, nessuno escluso (i global coordinator sono Goldman Sachs, Merrill Lynch e Mediobanca) hanno voluto essere della partita. Una scalata da dare le vertigini. E c’è già chi vede in Ruffini il nuovo protagonista simbolo del settore, capace di dare la scossa al mondo delle griffe. Ma lui si sente solo un «conquistatore dell’utile», evoluzione anglobrianzola dei vecchi miti della Moncler.

Che programmi avete dopo la quotazione?
Moncler finora si è sempre finanziata da sola e continuerà a farlo. I capitali in arrivo dalla quotazione in Borsa finiranno, come previsto, ai private equity, che sono stati costretti dalla crisi del 2011 a ritardare la loro uscita.

Ma avete acquisizioni in vista? 
Sono convinto che sia meglio concentrarsi per saper fare sempre meglio ciò che si sa fare, cioè una buona giacca, piuttosto che disperdere le forze. Non a caso Moncler non segue la politica della brand extension, ma cerca di avvicinarsi sempre di più al consumatore e alle sue esigenze. Abbiamo creato la Gamme rouge, ideata da Giambattista Valli. Poi l’alta gamma maschile disegnata da Tom Browne. Quando siamo entrati nel mondo degli occhiali, l’abbiamo fatto con una partnership, non con una licenza. E lo stesso vale per altri settori cui stiamo lavorando, dalla maglieria alle calzature.

Quindi, più che comprare altri marchi, l’obiettivo è di allargare l’offerta? 
A modo nostro. Stiamo lavorando a nuovi materiali assieme a partner giapponesi: prodotti impermeabili e a prova di vento, membrane resistenti. Giacche sempre più leggere che possano stare dentro una borsa da viaggio. E dove non arriviamo noi con le nostre competenze ricorriamo agli altri. È la stessa filosofia della collaborazione con i designer. Fin dal mio ingresso abbiamo dato vita a un laboratorio di sperimentazione sul piumino e dintorni, chiedendo a nomi strategici della moda di interpretare il duvet, senza tradire in nostro dna. In particolare Junya Watanabe, ma hanno lavorato con noi, creando collezioni speciali, anche Fendi, Chitose Abe per Sacai, Hiroki Nakamura per Visvim, Pharrell Williams e Christopher Raeburn.

Quanto conta ancora la montagna per voi? 
Molto, non a caso abbiamo lanciato la linea Grenoble, per tornare alle nostre radici sportive. E la città ideale, in un certo senso, resta Harbin, Cina, con i suoi nove mesi di neve all’anno. Hong Kong, dove forse la neve non c’è mai stata, è il nostro secondo negozio, dietro Parigi, per ricavi di vendita.

E la strategia commerciale?
Intendiamo aprire una ventina di punti vendita all’anno, non di più. L’obiettivo è un fatturato diviso in tre: un terzo delle vendite in Europa, uno in Asia, il resto nelle Americhe. Oggi l’Italia conta il 26 per cento, il resto d’Europa il 32, così come l’Asia e il Giappone. L’America il 10 per cento.

L’Italia è destinata a contare sempre meno? 
La crisi è profonda, ma l’Italia, in attesa della ripresa, è comunque un mercato importante, dati i flussi turistici. È una delle caratteristiche del mercato globale: nel nostro negozio di Miami vendiamo soprattutto a messicani e brasiliani. I viaggiatori sono ormai una componente fondamentale, che modifica la mappa delle aree commerciali. Più che moltiplicare all’infinito la rete dei nuovi negozi, presto dovremo capire dove vanno a comprare i turisti dello shopping.

Il made in Italy, insomma, non ha più il valore che gli viene comunemente attribuito. O almeno va declinato in una maniera nuova. E così?
Il concetto di lusso, ormai internazionale, per me poggia su due pilastri: la qualità, su cui non si possono fare sconti; e non essere mai troppo di moda, perché il vero lusso dura nel tempo.

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Ugo Bertone