Mps e la fusione con Bnp Paribas
Economia

Mps e la fusione con Bnp Paribas

Per ora sono solo voci e sembra di rivedere il film del 2005. Ma questa volta c'è Alessandro Profumo che potrebbe sorprenderci

C'era una volta la “senesità”, che sembrava gemella della “torinesità": cioè l'abnorme attaccamento al campanile dei vertici delle due grandi banche di Siena, il Monte dei Paschi e di Torino, il San Paolo. Ma Siena e Torino erano e sono diverse, e s'è visto.

Sempre a questi tempi – la metà degli anni Duemila - c'erano gli appetiti dei colossi europei sulle banche italiane. Fu per appetito che don Emilio Botin, presidente totipotente sin da allora della banca co-leader europea (il Banco de Santander) volle incontrare a Bruxelles, nella primavera del 2006, l'allora presidente della Compagnia di San Paolo Franzo Grande Stevens, primo azionista dell'Istituto bancario San Paolo di Torino, e gli disse che la sua banca, che del colosso torinese era secondo socio, aveva interesse a “consolidarsi” con la partecipata italiana. Tradotto: voleva comprarsela.

Grande Stevens ne prese atto con gelida cortesia e, tornato in Italia, né parlò con Enrico Salza, presidente del San Paolo, e subito dopo con il governaore della Banca d'Italia Mario Draghi. L'orientamento di tutti fu unanime: non era il caso di cedere il San Paolo agli spagnoli; ma la domanda conseguente, fu immediata: c'è, tra i soci italiani del San Paolo, qualcuno con le munizioni e la determinazione per contrastare il Santander? Con tutta evidenza, no: e fu così che nacque, grazie alla prontezza di Giovanni Bazoli, capo di Banca Intesa, il grande progetto di aggregazione tra il San Paolo e, appunto, Banca Intesa, che venne rivelato all'inizio di quell'estate da Panorama Economy e venne annunciato formalmente nel corso dell'estate stessa.

La “torinesità” dei sanpaolini, così celebrata in decine di convegni e declinata in una gestione indubbiamente localistica delle elargizioni statutarie della stessa Compagnia, cedette il passo quindi – in nome di un superiore interesse dell'economia italiana – ad una logica diversa, nazionale. Il ruolo-guida che la fondazione torinese aveva conservato fino a quel momento nel San Paolo tramontò. Ma oggi, le istituzioni che governano quella fondazione hanno ragione di essere soddisfatti della loro volontaria abdicazione...

Cosa dovrebbero pensare, invece, gli enti locali senesi, che dal Dopoguerra in poi hanno gestito la Fondazione Montepaschi come una specie di “kolkos” sovietico, obbligato a presidiare la banca di casa come una chioccia fa con l'uovo? Fu la loro pervicace difesa di una senesità senza deroghe che fece andare a monte l'idea che oggi ritorna a serpeggiare nei mercati finanziari, ma virtualmente sotto un'altra bandiera, quella del colosso francese Bnp-Paribas. L'idea che i senesi mandarono a monte era la fusione tra Montepaschi e Bnl. Che se oggi tornasse in auge lo sarebbe grazie al fatto che la Bnl è, appunto, parte integrata del gruppo francese e il Montepaschi è una banca in ristrutturazione controllata ancora al 34% da un ente che non ha più un quattrino in cassa ed è anzi oberato da debiti. Più crediti di così si muore.

Ebbene, giova ricordare che nell'estate del 2005, fu proprio la coriacea “senesità” della fondazione toscana a impedire che decollasse il progetto di fusione con la Bnl. L'ex banca del Tesoro, con  la privatizzazione, era stata più o meno regalata al solito “nocciolino” di controllo dove il socio-guida per l'Italia era la sana ma piccola Banca popolare di Vicenza, mentre il socio forte era l'altro colosso creditizio spagnolo, cioè il Banco di Bilbao, il quale ben presto decise che il ruolo di comprimario gli stava stretto e cominciò a progettare un “take-over”.

Ma si sa che una banca non è scalabile come se fosse una fabbrica di formaggini, e questo i baschi del Bilbao lo sapevano: avrebbero anche dovuto acconciarsi ad altri destini, se il sistema-Italia avesse reagito con decisione. Invece, cosa accadde? Che la Fondazione di Siena, che aveva il pallino in mano in quanto azionista di maggioranza assoluta di una banca all'epoca molto ricca, disegnò un progetto tanto ambizioso da essere inattuabile, cioè una fusione Bnl-Mps che avesse visto la Fondazione stessa al 33% e il Bilbao al 18%, destinata ad una successiva ulteriore fusione con lo stesso Bilbao, che avrebbe visto la Fondazione al 10% e gli spagnoli di Telefónica (soci di riferimento del Bilbao) attorno al 2%. Una specie di corrida dove, nei deliri senesi, l'estabilishment spagnolo avrebbe dovuto cedere praticamente in cambio di nulla la sua seconda banca più importante, e il vessillo del mega istituto avrebbe dovuto sventolare su Siena come uno dei tanti stendardi di contrada. Figuriamoci.

Nel frattempo, dentro la Fondazione senese, serpeggiava anche una fronda interna che depotenziava ulteriormente un piano già tanto ambizioso da essere inattuabile di suo: la fronda interna che cioè propendeva per l'altra soluzione che intanto andava lievitando in segreto, l'ipotesi del polo bancassicurativo Unipol-Bnl, graditissimo al vertice del Pds, cioè al gruppo dalemiano. Fu alla fine lo sfumare del triplo polo bancario italo-spagnolo a dare spazio al braccio di ferro su Bnl tra l'Opa del Bilbao e la contro-Opa dell'Unipol, materia di tante polemiche e tuttora di tante istruttorie giudiziarie. Usciti defilati da questa nuova fase, il Montepaschi e la sua Fondazione – tronfia della difesa indipendenza – s'infilarono poi nel pozzo senza fondo dell'acquisizione di Antonveneta dalla quale non sono più usciti: e il resto è cronaca d'oggi.

Si riparla, dunque, di Bnl-Mps, perchè la banca di Siena ha bisogno di un nuovo padrone e perchè le ragioni industriali che anche all'epoca suggerivano la fusione permangono tutte. Piccolo particolare, oggi la banca “marito”, cioè la Bnl, è francese. L'Europa è, diciamo così, unita, ed in nome del nazionalismo creditizio troppi mostri sono già nati, quindi bando agli sciovinismi. Però, visto che ormai internazionalizzarsi non è un'opzione ma è un obbligo, forse sarebbe meglio lasciar disegnare a Profumo il futuro assetto di Mps, visto che in Unicredit il banchiere (certo non immune da pecche ma di indubbia visione strategica) ha dimostrato come si possa mantenere in Italia la cabina di regia di una grande banca che ormai non è più italiana nell'azionariato prevalente, a patto che tra questi soci internazionali non ce ne sia uno che svetti sugli altri per know how industriale, non ce ne sia insomma uno aggregante ma ce ne siano molti, bilanciati, di natura e interessi meramente finanziari...

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Sergio Luciano