Dolce vita, quanto vale e perché andrebbe considerata nei rating
La cultura in Italia vale 80 miliardi l'anno, ma il nostro paese è quello che sa meno degli altri sfruttare questa risorsa
Bastano il Pil, il livello del debito sovrano e la stabilità del governo a giudicare un paese?
Questa la domanda che, in fondo, si è posta la Corte dei Conti inviando una lettera alle agenzie di rating sulle quali pende un'istruttoria aperta dal procuratore generale del Lazio, Raffaele De Dominicis.
I magistrati contabili hanno valutato in 234 miliardi di euro il danno procurato dal primo luglio 2011 al 13 gennaio 2012 dalle "tre sorelle" dei rating (S&P, Mooody's, Fitch), che abbassarono a più riprese il giudizio dell'Italia fino a quasi il livello "spazzatura" (junk bond), con effetti negativi sui tassi di interesse di Bot e Btp e quindi sul debito pubblico italiano.
Il loro j'accuse - anche se hanno specificato che "è del tutto prematuro nella attuale fase di indagine qualsiasi quantificazione in merito ad un eventuale risarcimento" - entra però più nel metodo che nel merito: S&P, Moody's e Fitch non avrebbero tenuto conto della ricchezza immateriale dell'Italia.
In altre parole, il patrimonio artistico e culturale. Già, ma quanto vale quello che i giornali anglosassoni chiamano, non senza ironia, la "Dolce vita"?
L’Italia, ricorda l’Istat in un recente rapporto, si colloca al primo posto per numero di siti iscritti come "patrimonio dell’umanità" nella World Heritage List dell'Unesco (47, pari al 4,7% del totale), mentre le aree di particolare pregio e sottoposte a vincolo di tutela, coprono quasi la metà del territorio nazionale (46,9%).
Non solo. Sempre l’Istat aggiunge che i beni censiti nel 2012 nella Carta del rischio del patrimonio culturale (monumenti, musei, siti archeologici ecc.) superano le 100 mila unità: ogni 100 chilometri quadrati, insomma, se ne trovano più di 33.
Tutto questo, per dire che l’Italia, indebitata fin sopra i capelli, è anche molto ricca di beni artistici.
E la cultura, ovviamente, ha un valore economico: 75,5 miliardi di euro nel 2012, pari al 5,4% del Pil, frutto del lavoro di quasi un milione e mezzo di persone.
Questa la cifra snocciolata lo scorso autunno dal Rapporto 2013 "Io sono cultura – l’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi" elaborato da Fondazione Symbola e Unioncamere con la collaborazione dell’assessorato alla cultura della Regione Marche, secondo cui il valore aggiunto del patrimonio artistico e culturale arriva a circa 81 miliardi di euro.
Ed estendendo il calcolo ai privati, alla pubblica amministrazione e al no - profit il dato arriverebbe addirittura a 214,2 miliardi (circa un decimo del debito pubblico), se si considera la filiera in senso lato.
Grazie a questi numeri la lettera spedita dalla Corte dei Conti alle agenzie di rating acquista un significato certo non ovvio.
Ma c’è anche un lato oscuro su cui va fatta luce e che non gioca certo a favore dell’Italia: quello della gestione economica di questo immenso patrimonio.
Perché il nostro paese è sì tra i più ricchi di beni artistici e culturali, ma è anche quello che sa meno degli altri renderli produttivi: la società di consulenza PriceWaterhouseCoopers in uno studio del 2009 mostrò come gli Stati Uniti d'America, pur con la metà dei siti rispetto all’Italia, riuscissero ad avere un ritorno commerciale pari a 16 volte quello italiano.
E in Europa il ritorno degli asset culturali di Francia e Regno Unito (nonostante abbiano un patrimonio culturale ed artistico inferiore a quello italiano) allora era superiore tra le 4 e le 7 volte quello italiano.
Solo con il Louvre i cugini d'Oltralpe sono riusciti a incassare quasi 100 milioni di euro nel 2012, una cifra pari a quella raccolta assieme nello stesso periodo dagli oltre 400 tra musei e aree archeologiche (tra cui Uffizi, Pompei e Colosseo): 113 milioni di euro.
Morale? Il parametro cultura, come richiesto dai magistrati contabili, potrebbe persino rivelarsi un boomerang per l'Italia.