Pensioni, è blocco delle rivalutazioni
Sapete quanto può costare per 2 anni a un pensionato che prende 2.182 euro al mese il blocco della rivalutazione degli assegni deciso dal Parlamento? 'Appena' 24 mila euro
Nascosta dietro termini tecnici e apparentemente destinata ai «ricchi», l’ultima trovata del Parlamento per mettere una pezza al pasticcio degli esodati si tradurrà in una sonora fregatura per i pensionati che prendono più di 2.182 euro netti al mese. La misura si chiama blocco delle perequazioni e vuole dire mancato adeguamento all’inflazione degli assegni versati dall’Inps. È stata inserita nella legge di stabilità e riguarderà le pensioni che superano sei volte il minimo. Scatterà per il 2014 se nel frattempo non si riusciranno a risparmiare circa 500 milioni di euro dagli stanziamenti già previsti per il fondo di salvaguardia per gli esodati.
Ma che cosa comporta questa riforma in prospettiva, per esempio per un pensionato che oggi ha 66 anni e incassa, appunto, sei volte il minimo cioè 2.182 euro netti al mese? Per capirlo occorre fare un passo indietro: normalmente la perequazione copre per intero la parte della pensione fino a tre volte il minimo (che è di 480 euro lordi al mese), mentre per la parte che va fino a cinque volte il minimo la rivalutazione copre il 75 per cento dell’inflazione; al di sopra di cinque volte non c’è rivalutazione. Già per quest’anno e per il prossimo la rivalutazione parziale al 75 per cento è stata bloccata, con un danno che riguarda milioni di pensionati. In pratica, chi incassa questo assegno da 2.182 euro, nel 2012 ha subito, a causa del blocco delle rivalutazioni, una perdita di 572 euro, cioè 44 euro mensili in meno, calcola il servizio politiche previdenziali della Uil, che ha collaborato con Panorama per preparare gli esempi che accompagnano questo articolo.
E per dare un’idea di quanto siano pesanti gli effetti di un blocco della perequazione anche nel futuro, Panorama ha chiesto di fare i conti a Marco Micocci, ordinario di matematica finanziaria e attuariale a Cagliari e alla Luiss Guido Carli di Roma. «In base a un’evoluzione attesa del 2,5 per cento dell’indice dei prezzi al consumo, questo pensionato di 66 anni percepirà durante tutta la sua vita circa 24 mila euro in meno (in moneta corrente rispetto all’inflazione) rispetto a quello che avrebbe ottenuto senza blocco della perequazione per il 2012 e 2013» stima Micocci.
Questi 24 mila euro rappresentano circa il 4 per cento dell’intera rendita pensionistica che il pensionato avrebbe incassato in assenza di blocco. E il danno potenziale cresce con l’aumentare dell’inflazione: per esempio, calcola Micocci, «con un indice dei prezzi al consumo stabilmente al 3 per cento, il peso del blocco passa dal 4 al 4,8 per cento su quanto incasserà nell’intera vita il pensionato».
Se venisse confermato il blocco anche nel 2014 (e non si può escludere negli anni successivi), il danno per i pensionati evidentemente sarebbe ancora maggiore. Domenico Proietti, segretario confederale della Uil e responsabile delle politiche previdenziali, sostiene che «il sistema pensionistico era già in equilibrio con i precedenti interventi, le finestre mobili e l’aggancio alle aspettative di vita. Il ministro Elsa Fornero ha partorito una nuova riforma delle pensioni che ha solo creato altri problemi». E, rispetto in particolare al blocco della perequazione degli assegni, il segretario confederale della Uil ricorda che «ogni tanto i vari governi per fare cassa hanno bloccato la rivalutazione delle pensioni, ma in questo momento di crisi e di recessione il provvedimento è oltremodo duro per milioni di pensionati che subiscono una considerevole diminuzione del reddito». Il punto è che per trovare fondi e risolvere l’ingiustizia degli esodati si rischia di varare un’altra ingiustizia che crea enormi danni in prospettiva.
Certo, la norma che crea un ulteriore danno per i pensionati deve ancora passare al Senato prima di diventare definitiva. Avverte Proietti: «Con i provvedimenti varati dal ministro Fornero è stata fatta una gigantesca operazione di carta, cioè si sono tolte risorse dal sistema previdenziale per andare a coprire altri buchi del bilancio dello Stato».
È pur vero che l’ultima riforma basata sull’aumento dell’età pensionabile e sul metodo contributivo (cioè la pensione pagata in base ai contributi versati e non alle retribuzioni, come avveniva in passato) può aumentare le rendite, poiché impone diversi anni di lavoro e di versamenti in più. Nei nostri esempi, i lavoratori che oggi hanno 40 e 50 anni arriverebbero a percepire una pensione pari all’85 per cento dell’ultimo stipendio. Ma questo può avvenire a due condizioni: che abbiano iniziato molto presto a lavorare (per omogeneità, abbiamo ipotizzato quando avevano 20 anni d’età) e che continuino a versare contributi per un periodo lunghissimo: 43 anni e 10 mesi nel caso del cinquantenne di oggi che potrà andare in pensione nel 2026, addirittura 45 anni di contribuzione per l’attuale quarantenne che potrà ritirarsi solo nel 2037.
Insomma, una vita al lavoro per poi finalmente arrivare all’agognata e meritata pensione? Sì, ma il problema è che gli assegni erogati dall’Inps vengono poi inesorabilmente erosi dall’inflazione.