Perché General Motors dice no a Marchionne
Epa/Rena Laverty
Economia

Perché General Motors dice no a Marchionne

Una eventuale fusione tra le due società converrebbe moltissimo a Fca meno al gruppo di Detroit

Sergio Marchionne accelera. L’amministratore delegato della Fca (Fiat Chrysler Automobiles) tenta, per la seconda volta, di convincere General Motors a creare un gigante dell’auto mondiale, attraverso una fusione tra le due società. Il primo assalto è andato a vuoto: la mail di Marchionne (della quale ha dato notizia il Wall Street Journal) all’amministratore delegato di Gm Mary Barra non ha sortito alcun effetto. Ora Marchionne ci riprova, cambiando strategia. Secondo quanto riportato sempre dal Wall Street Journal, il manager starebbe bussando alle porte degli azionisti della General Motors, fondi speculativi e hedge funds, per illustrare loro i vantaggi di una fusione in modo che questi possano fare pressione sulla società e spingerla a intavolare una discussione.

L'obiezione fondamentale

Ma queste eventuali trattative, delle quali ancora non si ha notzia, si scontrerebbero con un’obiezione fondamentale: con una fusione, chi ci guadagna? Stando ai numeri, Fca. Intanto bisogna notare che, dimensionalmente parlando, Gm è grossa il doppio di Fca visto che ha una capitalizzazione di borsa pari a 56,4 miliardi di dollari rispetto ai 20,1 della società gudata da Marchionne e, quindi, parlare di fusione è fuorviante, sarebbe più giusto parlare di una vendita di Fca a Gm. Ma perché Mary Barra dovrebbe comprare Fca? In effetti i dubbi non mancano.

I titoli "junk"

Ad esempio: i bond di Fca sono ancora valutati dalle agenzie internazionali di rating “junk”, cioè, “spazzatura” e questo significa che le banche per dare soldi a Fca chiedono interessi più alti rispetto a quelli chiesti ai suoi concorrenti. E il risultato si vede nei conti. Il fatturato lordo del primo trimestre del 2015 è stato pari a quasi 1,5 volte gli interessi sul debito. Significa che Fca guadagna molto poco: sul mercato nordamericano i suoi margini sono pari al 3,7%, la metà rispetto a General Motors che, quindi, non solo è grande più del doppio ma guadagna, anche, il doppio.

Eppure la fusione ha, da un punto di vista logico, molto senso. Nell’ultima conference call con gli analisti Marchionne ha spiegato più volte che i maggiori produttori di auto spendono ogni anno circa 100 miliardi di dollari in ricerca e sviluppo e che se due big si fondessero risparmierebbero oltre 5 miliardi. Vero, ma se, per ipotesi, Gm comprasse Fca dovrebbe destinare una parte di quei risparmi al sostegno dei conti di Fca che, negli ultimi 12 mesi, ha bruciuato cassa per un miliardo di dollari.

Il partner necessario

Il settore automobilistico è, comunque, alla viglia di un consolidamento importante e quando si apriranno le danze, Marchionne non intende restare senza partner. Il tempo, insomma, stringe, non solo perché ogni giorno che passa Fca brucia cassa, e quindi, per dirla in metafora, è sempre meno attraente agli occhi di chi decidesse di proporle un matrimonio, ma anche perché la sua promessa di raggiungere quota 7 milioni di auto vendute nel 2018 appare ogni giorno che passa sempre meno credibile. L’anno scorso, infatti, le vendite Fca sono state pari a 4,7 milioni di unità.

Tuttavia Marchionne ha ancora un asso nella manica: Ferrari. La quotazione della casa di Maranello, prevista per ottobre, è stata strutturata in modo tale che chi volesse diventare socio della rossa dovrebbe prima essere azionista di Fca perché i titoli Ferrari verranno distribuiti in modo proporzionale tra i soci. È un incentivo straordinario per comprare in borsa, ed è esattamente questo il motivo per il quale le azioni Fca continuano a godere di un buon andamento: in un anno hanno guadagnato il 35% rispetto ad un andamento piatto dei titoli Gm. Ma il richiamo Ferrari, sufficiente per attirare compratori di azioni Fca, evidentemente non è sufficiente per convinvcere un big dell’auto ad accollarsi tutto il gruppo.

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Marco Cobianchi

Sono nato, del tutto casualmente, a Milano, ma a 3 anni sono tornato a casa, tra Rimini e Forlì e a 6 avevo già deciso che avrei fatto il giornalista. Ho scritto un po' di libri di economia tra i quali Bluff (Orme, 2009),  Mani Bucate (Chiarelettere 2011), Nati corrotti (Chiarelettere, 2012) e, l'ultimo, American Dream-Così Marchionne ha salvato la Chrysler e ucciso la Fiat (Chiarelettere, 2014), un'inchiesta sugli ultimi 10 anni della casa torinese. Nel 2012 ho ideato e condotto su Rai2 Num3r1, la prima trasmissione tv basata sul data journalism applicato ai temi di economia. Penso che nei testi dei Nomadi, di Guccini e di Bennato ci sia la summa filosofico-esistenziale dell'homo erectus. Leggo solo saggi perché i romanzi sono frutto della fantasia e la poesia, tranne quella immortale di Leopardi, mi annoia da morire. Sono sposato e, grazie alla fattiva collaborazione di mia moglie, sono papà di Valeria e Nicolò secondo i quali, a 47 anni, uno è già old economy.

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