Politica economica USA. Lo scenario per l’Europa nel caso di una vittoria di Donald Trump
Con la rinuncia di Joe Biden e la conferma di Kamala Harris come candidata democratica, la corsa per la Presidenza degli Stati Uniti entra in una nuova fase
Nell’attesa che Harris cominci a darci segnali su quale potrebbe essere il suo approccio alla politica economica - e se questa si discosterà da quello di Joe Biden - il discorso di JD Vance al congresso repubblicano per l’accettazione della candidatura a vicepresidente ci ha dato indicazioni di quale potrebbe essere la politica economica degli USA nel caso in cui Donald Trump vinca le elezioni USA il prossimo novembre.
Potrebbe trattarsi certamente di una svolta radicale rispetto a quella attuale. Non sarebbe però un salto nel buio verso un futuro sconosciuto e inesplorato, ma piuttosto un ritorno al passato che trova le sue radici nella formazione stessa di quelli che oggi sono gli Stati Uniti d’America. Protezionismo e isolazionismo, commerciale e politico, sono stati infatti la dottrina con la quale si sono avviati gli Stati Uniti, anche e soprattutto con l’obiettivo di rendersi pienamente indipendenti. Fino a quel momento, infatti, l’economia degli Stati Uniti, come era tipico per le colonie, era incentrata sull’estrazione e produzione di materie prime e l’importazione di prodotti trasformati.
Per non cadere in una sterile ideologia, è quindi importante notare che il protezionismo o, meglio, un adeguato bilanciamento tra protezionismo e globalizzazione, può, in determinate situazioni storiche, essere la migliore via da seguire, ad esempio quando si vuole industrializzare o reindustrializzare un paese. Non è un caso che la Cina, in fondo, abbia sempre tenuto barriere commerciali alzate verso Stati Uniti ed Europa. La dottrina isolazionista e protezionista è stata poi cambiata dagli Stati Uniti circa 70 anni fa quando, a seguito della vittoria nella seconda guerra mondiale, e una primazia tecnologica ed industriale, anche conquistata grazie agli scienziati europei, gli Stati Uniti sono diventati, a quel punto, i propugnatori di un mondo aperto e globalizzato, in cui erano loro ad acquisire materie prime e a vendere prodotti trasformati. La globalizzazione, insieme alla burocratizzazione delle economie avanzate, finalizzata ad aumentare gli standard sociali ed ambientali, hanno portato tanta ricchezza e benessere, agli Stati Uniti e all’Europa, ma anche crescente disuguaglianza e dipendenza dal resto del mondo.
Il disagio non tanto degli esclusi (di quelli che non hanno mai goduto del benessere), ma degli espulsi (di quelli che il benessere lo avevano sperimentato ma ora lo hanno perso) è giunto ad un punto tale che tutto ciò ora viene vissuto e descritto, da JD Vance e dalla fazione trumpiana, come un tradimento delle élite nei confronti della classe lavoratrice americana, che ha indebolito gli stessi Stati Uniti d’America.
Tale visione, se effettivamente implementata, potrebbe portare a una strategia economica antitetica a quella propugnata ed adottata dall’Europa, con l’abbandono delle politiche burocratico-dirigiste simili a quelle europee su ambiente (green deal) o intelligenza artificiale (privacy), e l’innalzamento di barriere commerciali non solo nei confronti dell’Asia, ma anche verso di noi.
L’Europa rischia quindi di trovarsi da sola a difendere il libero mercato internazionale e a continuare a innalzare progressivamente gli standard sociali e ambientali. La conseguenza sarebbe una ulteriore accelerazione della deindustrializzazione in atto.
L’Italia, in quanto esportatore netto, è particolarmente esposta a questo scenario. Siamo un paese con poche materie prime, di trasformatori e commercianti. In un mondo chiuso soffriamo.
È importante quindi che l’Europa, e l’Italia, si preparino a fronteggiare un tale scenario, avviando un dibattito fattivo e non ideologico su quale sia il migliore bilanciamento tra apertura e protezione per il nostro continente. Alcune recenti azioni della Commissione europea, ad esempio i dazi sulle auto elettriche e sui biocarburanti cinesi, stanno forse segnalando che anche a Bruxelles ci si è resi conto che la musica sta o è già cambiata. È necessario però che tale nuova strategia smetta di essere reattiva, di mera risposta alle azioni degli altri, e assuma le caratteristiche di un quadro organico più solido e condiviso, finalizzato ad una concreta autonomia strategica europea e alla difesa della nostra capacità manifatturiera.