Quotazione Fincantieri, un flop che arriva da lontano
Nel 2007 era tutto pronto per lo sbarco in borsa in modo da reperire gli 800 milioni necessari per espandere e diversificare il business. Ma Rifondazione e Cgil bloccarono tutto. Ponendo le basi per l'indebolimento della società
La stagione delle privatizzazioni del governo di Matteo Renzi inizia male. La vendita delle azioni della Fincantieri è stata ampiamente inferiore alle aspettative. A causa della scarsa richiesta il prezzo dei titoli è stato fissato a 0,78 euro (rispetto a un livello massimo della forchetta di 1 euro) per un incasso per la società di 351 milioni di euro rispetto ad un massimo inizialmente preventivato di 700 e l’azionista di controllo, Fintecna, invece di scendere al 55% resterà al 65% del capitale. Il collocamento a Piazza Affari avverrà attraverso un aumento di capitale, quindi né Fintecna né, tantomeno, lo Stato (che controlla Fintecna) incasserà un solo euro.
La cattiva accoglienza dell’operazione può avere diversi motivi come ad esempio il fatto che per tre anni la società non distribuirà dividendi oppure che il controllo rimane saldamente in mano pubblica, ma probabilmente il vero motivo consiste nel fatto che Fincantieri non è più appetibile per gli investitori di tutto il mondo (essendo la cantieristica un business mondiale e non domestico) come lo era solo pochi anni fa quando un'analoga operazione di quotazione venne bloccata dall’opposizione della sinistra radicale di Rifondazione Comunista. Il governo di Romano Prodi si reggeva su una maggioranza parlamentare di appena un paio di voti nonostante al governo fossero stati associati ben 16 formazioni politiche. In un contesto così instabile il segretario di Rifondazione, Paolo Ferrero, minacciando di far cadere il governo, riuscì a fare approvare, il 31 luglio, una risoluzione parlamentare che subordinava la quotazione alla «predisposizione in tempi brevi da parte di Fincantieri di un piano industriale condiviso con i sindacati».
Si trattava di un assist alla Cgil guidata da Guglielmo Epifani (Cisl e Uil erano favorevoli alla quotazione) che aveva già proclamato diversi scioperi contro la quotazione e contro il piano industriale predisposto dall'amministratore delegato Giuseppe Bono. Quel piano, approvato dal Consiglio d'amministrazione della società e anche dal governo, prevedeva una diversificazione del business e un forte sviluppo all'estero con joint ventures in India e l'acquisto di cantieri navali in Usa e Caraibi per contrastare la feroce concorrenza asiatica nel business tradizionale del gruppo. Per sviluppare il piano, Bono aveva bisogno di circa 800 milioni da reperire anche attraverso la quotazione, ma l’opposizione della Cgil e di Rifondazione bloccò sia il piano che la quotazione e pose le basi per un progressivo indebolimento di Fincantieri che, all'epoca, possedeva il 50% degli ordini mondiali delle navi da crociera.