Riscatto della laurea, com’è oggi e come potrebbe cambiare
Nella maggioranza si fa strada l’idea di rendere gratuiti i contribuuti previdenziali per gli anni di università. Ma c’è un problema di costi
Rendere gratuito il riscatto della laurea. E’ l’ipotesi che è stata avanzata nei giorni scorsi dal sottosegretario all’Economia, Pier Paolo Baretta, e che si fa strada anche nella maggioranza che sostiene il governo Gentiloni. In pratica, l’idea è consentire a chi ha frequentato l’università di far valere gratuitamente nei propri anni di carriera anche il periodo trascorso a frequentare il corso di studi, purché sia stato conseguito alla fine il tanto agognato titolo di dottore o dottoressa.
Se venisse introdotta questa agevolazione, i laureati italiani potrebbero avere una pensione un po' più alta del previsto, poiché l’Inps (cioè lo Stato) si farebbe carico al loro posto di 4 o 5 anni in più di contribuzione. Non a caso, da quando è ventilata questa ipotesi nella maggioranza, è nato pure un movimento spontaneo sui social network a favore del riscatto della laurea gratuito. Capire il perché di questa mobilitazione non è difficile.
Già oggi, infatti, il riscatto della laurea è accessibile a chiunque abbia terminato il corso di studi in qualsiasi ateneo. Si tratta però di una pratica assai costosa e molto meno diffusa rispetto ai decenni scorsi, perché offre minori benefici di un tempo. Per riscattare la laurea, infatti, bisogna pagare all'Inps almeno 4 o 5 annualità di contributi aggiuntivi, corrispondenti alla durata complessiva degli studi (escludendo gli anni fuori corso).
L'ammontare dei versamenti viene calcolato in proporzione allo stipendio percepito dal lavoratore nell'anno precedente la domanda di riscatto, sulla base dell'aliquota pensionistica di ogni categoria professionale (per i dipendenti è il 33% circa dello stipendio).
Un esempio concreto
Nel caso di un lavoratore dipendente che ha studiato all'università per 4 anni e guadagna 20mila euro lordi, la cifra da pagare è pari a circa 26.500 euro, così calcolata: sullo stipendio lordo di 20mila euro viene applicata l'aliquota del 33%, che comporta un versamento contributivo di 6.600 euro ogni 12 mesi. Moltiplicando quest'ultima cifra per 4 anni, si ottiene appunto un esborso finale di quasi 26.500 euro, che può essere versato all'Inps nell'arco di 10 anni, con 120 rate mensili di 220 euro.
Si tratta indubbiamente di una cifra molto elevata che, tra l'altro, costringe a fare una scommessa dall'esito incerto. Facendo gli scongiuri, c'è infatti sempre il rischio che un lavoratore non riesca ad arrivare alla tanto attesa età della pensione. In questo caso, l'aspirante pensionato avrà regalato dei soldi all'Inps, senza ottenere alcun beneficio. Meglio allora usare i versamenti necessari a pagare il riscatto della laurea per mettere da parte un tesoretto da godersi in vecchiaia o da lasciare poi in eredità ai propri discendenti.
Mancanza di soldi
E’ chiaro dunque che se il riscatto della laurea venisse reso gratuito anziché oneroso come oggi sarebbero in molti a festeggiare. Peccato, però, che i soldi a disposizione per un tale “regalo” ai dottori e alle dottoresse italiane siano ben pochi e nel governo c’è chi smorza già l’idea. Di conseguenza, il sottosegretario Beretta ha detto che la maggioranza sta pensando di circoscrivere l’agevolazione soltanto ai cosiddetti millennial, cioè i nati tra il 1980 e il 2000, purché si siano laureati lla fine del corso di studi.
Si tratta di una generazione che, come ha fatto notare Beretta, avrà una pensione calcolata in proporzione ai contributi versati nel corso della carriera, cioè con un sistema che si chiama "contributivo" ed è meno vantaggioso di quello previsto per i loro genitori, i quali hanno o avranno un assegno Inps calcolato in proporzione alla media degli ultimi stipendi percepiti prima di mettersi a riposo.
Riguardo al riscatto della laurea, insomma, il governo potrebbe usare due pesi e due misure, dimenticandosi però di un particolare: anche molti nati negli anni ’70 (e non soltanto i millennial) avranno la pensione calcolata con il poco vantaggioso metodo contributivo. Basta che abbiano iniziato la carriera dopo il 1995, quando è entrata in vigore la ormai stranota riforma Dini che ha cambiato i connotati alla previdenza italiana.
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