Sanità: pagheremo caro, pagheremo tutto
In attesa dei dettagli della manovra la riforma del ticket in base al reddito è l'ennesima mazzata al ceto medio ed agli italiani
In un libretto del 1812, intitolato Osservazioni sull’uso del salasso, il medico milanese Anselmo Prato scriveva: «Mi sono studiato di esaminare nel miglior modo a me possibile quando e fino a qual punto possa giovare il salasso nelle malattie (…) e dimostrato che alcune delle ragioni addotte in favor del salasso sono false, e che le altre non son giuste».
Sono passati due secoli, e il ministro della Salute Roberto Speranza ha deciso, come primo atto ufficiale, di dissanguare un altro po’ le famiglie italiane con una riforma a suo dire «epocale» della spesa sanitaria. Entro il 31 marzo 2020 (ma il premier Giuseppe Conte ha già frenato sui tempi), sarà infatti messa in cantiere la riorganizzazione del sistema dei ticket sanitari, ovvero la quota che i contribuenti versano allo Stato come forma di «compartecipazione» per le prestazioni assistenziali diagnostiche o ambolatoriali specialistiche. Oggi i ticket sono fissati nella misura massima di 36,15 euro ma domani potrebbero essere ancorati al «reddito familiare equivalente» in base allo slogan «chi più ha, più paga». Ciò significa che il costo dei ticket crescerà in proporzione alla ricchezza calcolata non più in base al gettito Irpef ma anche al patrimonio, comprese rendite e case.
Una scelta solo apparentemente di buon senso e di equità sociale. I numeri, infatti, raccontano tutta un’altra storia. Il 71 per cento delle prestazioni della sanità pubblica è già oggi erogato a cittadini esenti dal ticket per motivi legati al reddito o al tipo di patologia grave o cronica. È solo il restante 29 per cento a concorrere a coprire le spese di un settore che, di suo, è già finanziato dalle tasse dei cittadini. Facile intuire, allora, che l’unico effetto che il riordino della materia voluta dal ministro neo comunista sarà quello di abbattere ulteriormente questa percentuale pagante che sceglierà, a parità di esborsi, di migrare verso il privato.
Il 9° Rapporto Rbm-Censis ha spiegato che circa venti milioni di connazionali saldano le cure mediche di tasca propria (la cosiddetta spesa out of pocket) mentre altri 6 milioni hanno rinunciato del tutto a curarsi. Inoltre, il 62 per cento di chi ha ricevuto una prestazione sanitaria nel pubblico ne ha richiesto almeno un’altra in quella a pagamento. E questo riguarda sia i redditi bassi (56,7 per cento) sia quelli alti (68,9 per cento). La stessa ricerca ha messo, inoltre, in evidenza che il 38 per cento dei redditi bassi si rivolge direttamente al privato senza passare per il pubblico.
Analoga percentuale è quella che riguarda quanti non sono riusciti a prenotare almeno una volta una prestazione nel pubblico per la chiusura delle liste d’attesa. Non è una sorpresa, quindi, che la spesa per la sanità privata sia arrivata a 37,3 miliardi di euro con un incremento del 7 per cento rispetto al 2004.
La medesima cifra che, negli ultimi dieci anni, la politica ha sottratto a quella pubblica decurtandone le risorse pur in presenza di un aumento della platea di beneficiari. Secondo il centro studi e ricerche Itinerari previdenziali, la sola spesa sanitaria (1.870 euro pro capite nel 2016) per i circa 6 milioni di immigrati presenti in Italia sarebbe pari a 11 miliardi. Uomini e donne che certamente meritano assistenza, ma che non contribuiscono in alcun modo al sostenimento e alla funzionalità dell’impianto del welfare. «Uno dei problemi di fondo è l’incapacità italiana di investire sulle competenze acquisite nei Paesi d’origine» ha incalzato il presidente del centro studi, Alberto Brambilla, «tanto che gli immigrati che vengono in Italia sono per la maggior parte con bassa istruzione, bassa qualificazione professionale e spesso occupati come manovalanza a basso prezzo, quando non addirittura “in nero”, con l’effetto ancor più negativo di abbassare gli standard retributivi e lavorativi per tutti i lavoratori».
Aspetti macroecoomici che la ristrutturazione della spesa sanitaria del ministro Speranza non ha tenuto in alcuna considerazione. «La mia impressione è che questa riforma possa portare un maggiore spostamento di pazienti verso il privato considerato più concorrenziale oltre che più efficiente» spiega a Panorama Antonino Cartabellotta, presidente della fondazione Gimbe che si occupa di formazione e ricerca sanitarie. «Il concetto generale è che il cittadino sceglie il privato al diminuire della convenienza del pubblico. E quand’è che il pubblico diventa poco conveniente? Quando il ticket è troppo alto». Il risultato pratico è una privatizzazione surrettizia della sanità pubblica gratuita e universale. «Non esiste un disegno occulto di questo genere perché nessun politico se ne assumerebbe mai la responsabilità, però i fatti dicono che comunque stiamo andando in questa direzione».
La revisione della tassazione sanitaria rischia di far saltare completamente il banco. E di creare disuguaglianze laddove, adesso, ci sono robusti meccanismi di tutela. Il paradosso, infatti, è che, nel fissare i nuovi scaglioni dei ticket, si tenga «conto della presenza di malattie croniche o invalidanti o di malattie rare» o ancora «del riconoscimento di invalidità o dell’appartenenza a categorie protette» come recita la bozza di legge. Fasce oggi già escluse dal ticket, indipendentemente dal reddito e dal patrimonio, che potrebbero, invece, ritrovarsi a dover pagare in futuro. E non poco, considerato che il pericolo è quello di arrivare, con la progressione, a quantificare un super-balzello di 80 o addirittura 90 euro per i redditi più elevati.
C’è poi la questione delle coperture finanziarie: dal ticket le Regioni incassano 1,6 miliardi di euro, a cui aggiungere altri 400 milioni di euro per il superticket (che Speranza vorrebbe abolire del tutto). Totale due miliardi di euro che devono essere trovati da qualche altra parte. Ma dove?
Qualche tempo fa, pure l’ex ministro della Sanità Beatrice Lorenzin aveva provato a rimodulare i ticket senza però riuscire a far quadrare il cerchio. «Ci abbiamo lavorato per più di due anni insieme al Mef, le Regioni e l’Agenzia delle entrate, ma a un certo punto ci siamo dovuti fermare» ha ricordato. «Abbiamo fatto tutte le simulazioni possibili, la mappatura della platea degli esenti e le stime sugli evasori. Ebbene, è risultato che il 50 per cento dei cittadini già rientrava nelle categorie di esenzione (per reddito o per patologia), che tra l’altro sono proprio quelle persone che usufruiscono di più dei servizi sanitari». «Inoltre, abbiamo scoperto che a causa del numero di evasori molto elevato, rimodulando le fasce reddituali, si correva il serio di rischio aggravare la spesa della fascia tipo: lavoratori dipendenti con famiglie e con bambini per esempio, che già oggi sorreggono il sistema».
La proposta dell’esponente di Liberi e uguali, oltre a far pagare di più, punta anche a far risparmiare di meno i soliti sfortunati. In un provvedimento gemello, elaborato però dal ministero dell’Economia, sarebbe previsto un taglio alle detrazioni per le spese sanitarie che oggi sono uguali per tutti al 19 per cento, fino a un tetto massimo di 3.600 euro, ma che verrebbero pure in questo caso collegate al «reddito familiare equivalente», fissando a 100 mila euro la quota superata la quale non si ha più diritto allo sconto fiscale.
Le statistiche mostrano, dunque, che non è operando sulla leva del ticket che si può migliorare la qualità della sanità pubblica e aiutare concretamente i meno abbienti. La fondazione Gimbe ha calcolato in oltre 21 miliardi di euro le diseconomie che zavorrano il bilancio del comparto: sovrautilizzo di servizi e prestazioni inefficaci o inappropriati (6,48 miliardi); frodi e abusi (8,45 miliardi); acquisti e costi eccessivi (2,16 miliardi); inefficienze amministrative (2,37 miliardi); inadeguato coordinamento dell’assistenza (2,59 miliardi). E c’è sempre il capitolo scottante dei viaggi della speranza (con la «s» minuscola, non il ministro) sulle partite dare-avere tra le Regioni per le cure fuori sede: quest’anno la migrazione sanitaria, che di solito porta i malati del Mezzogiorno al Nord, ha riguardato 319 mila pazienti per un giro d’affari di 4,6 miliardi. Intatta è anche l’elevata quota di evasori che viene stimata in un 10 per cento di chi si rivolge alla sanità pubblica riuscendo a risultare esente dal ticket pur non possedendo i requisiti. Se proprio bisogna recuperare risorse, invece che tartassare le famiglie, sarebbe meglio colpire le sanguisughe che succhiano linfa dal sistema. Due secoli fa l’avevano già capito.
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