Segreto bancario: perché la Svizzera ci ha ripensato
La Confederazione sta ripensando il meccanismo per lo scambio di informazioni. E intanto fa marcia indietro per i residenti
"Il segreto bancario che resta". Parla da solo il titolo scelto dalla Rsi, la tv pubblica svizzera, per una news sulle recenti manovre dei cantoni e di Berna per restare quella "cassaforte" sicura e segreta che ha garantito per anni flussi ingenti di capitali nei forzieri elvetici.
La Svizzera a inizio 2017 ha iniziato il processo di adeguamento agli standard internazionali per il futuro scambio di informazioni, ma a fine anno ha deciso di fare (una parziale) marcia indietro: il segreto bancario resta, ma solo per i clienti residenti nella Confederazione, anche quelli che hanno interessi rilevanti fuori dal piccolo stato alpino. Visto dall'Italia, il nuovo iter sembra portare alla restaurazione del segreto bancario dietro cui si sono nascosti per anni gli evasori di casa nostra alla ricerca di paradisi fiscali dove occultare i loro beni, a volte frutto di operazioni illecite se non criminali.
L'alzata di scudi dei Cantoni
Dopo il Consiglio nazionale, anche gli Stati della Confederazione prima di Natale hanno approvato una mozione che chiede al Consiglio federale di rinunciare formalmente alla revisione del diritto penale fiscale, avviata nel 2013, che avrebbe consentito ai cantoni di esigere dalle banche informazioni anche in caso di contravvenzione fiscale e non soltanto di frode. Così è stata motivata la decisione: "In Svizzera si parte dal presupposto che il cittadino è onesto".
Un cavillo giuridico
La Confederazione fino allo scorso anno concedeva informazioni fiscali soltanto a Stati Uniti e Unione europea, ma solo nei casi di delitto fiscale, che è più grave. La pressione esercitata del G20 ha poi obbligato il Consiglio federale nel 2009 a estendere lo scambio di informazioni (che sono di più) anche nei casi meno gravi di contravvenzione fiscale. Stiamo parlando sempre di capitali non dichiarati, ma con una distinzione: per negligenza o intenzionalmente (la contravvenzione) o addirittura ricorrendo a documenti falsi o artefatti (la frode).
Un lento addio
La politica di non condividere informazioni è stata per decenni lo scudo d'acciaio a protezione del segreto bancario: ecco perché chi aveva nascosto un tesoretto in Svizzera poteva dormire sonni tranquilli. L'estensione della collaborazione prima a USA e Ue (che fanno parte di una prima lista di 38 stati) e poi ad altri 41 stati (compresi quelli che Berna considera "problematici"), e non solo nei casi di frode, ma anche di contravvenzione, è il primo passo per la fine dell'assoluta riservatezza delle cassaforti elvetiche. E cioè di uno dei business più redditizi della Confederazione.
I dati che saranno condivisi
A inizio 2017 le banche svizzere hanno cominciato a raccogliere i dati dei loro clienti stranieri che avevano depositato i loro averi nei caveau elvetici, come previsto dagli accordi siglati sullo scambio di informazioni. Dal 2018 li trasmetteranno, almeno una volta l'anno, al Fisco elvetico che a sua volta li inoltrerà alle autorità fiscali dei paesi stranieri. Per i cittadini europei, saranno condivisi nomi, cognomi, paesi d'origine, averi e redditi dei capitali depositati nei forzieri elvetici.
Scambio meno automatico
Ma il Parlamento svizzero, preoccupato sull'utilizzazione da parte dei Paesi stranieri (in particolare di quelli "problematici) dei dati trasmessi dal Fisco svizzero, come riporta il Sole 24 ore in un'inchiesta pubblicata a metà dicembre, ha fatto di tutto per reallentare lo scambio automatico e renderlo di fatto non automatico. Ad esempio, tutte le banche elvetiche potranno comunicare ai propri clienti residenti all’estero se e quali dati trasmetteranno al Fisco dello stato di appartenenza.
E sulla base di questa comunicazione, i clienti potranno addirittura chiedere la rettifica dei dati da comunicare e, in caso di mancato accordo, sottoporre la loro richiesta al tribunale civile. In questo modo, un evasore italiano con soldi nascosti in Svizzera avebbe la possibilità di allungare di un paio di anni la trasmissione dei suoi dati all'Agenzia delle entrate. Un tempo sufficiente per trasferire il tesoretto non dichiarato altrove, magari in un altro paradiso fiscale.