Start up, 10 motivi per cui il Rapporto Passera va letto
Economia

Start up, 10 motivi per cui il Rapporto Passera va letto

Dalle Università a Confindustria, gli spunti (giusti) del piano Restart Italia

Sfumato il calore delle cronache, nei cui toni ha giustamente prevalso la preoccupazione su quando e come le parole saranno tradotte in fatti, è utile tornare a ragionare su Restart, il rapporto della task force sulle start up voluta dal ministro Corrado Passera. Anche perché non c’è stata grande attenzione da parte del sistema dell’informazione, che ha liquidato l’iniziativa sviluppata all’interno del Ministero dello Sviluppo Economico come un episodio dell’accidentato percorso verso il decreto sviluppo, senza coglierne il più generale contenuto di novità.

Ed è un peccato perché il Rapporto è una lettura che andrebbe consigliata a molti. Andrebbe resa obbligatoria in tutte le Università, non solo quelle economiche. Promossa in tutta la struttura territoriale di Confindustria, e non solo tra i Giovani. E in qualche moda imposta a tutti quei politici che, più o meno a ragion veduta, parlano di crescita, produttività e sviluppo.

Perché? Ho provato a individuare 10 motivi per cui il Rapporto redatto dai 12 “apostoli” (copyright di Passera) della task force può essere letto come il racconto di una nuova Italia possibile. E anche più “spendibile” all’estero: il coordinatore Alessandro Fusacchia fa sapere che presto ci sarà una versione in inglese. Proprio per far capire che in Italia i cervelli e le idee non mancano. Semmai a scarseggiare è la volontà di cambiare, non solo a parole.

1. Il metodo di lavoro. Una volta costituita, la task force ha lavorato per un periodo breve (circa tre mesi) e con una scadenza definita riuscendo però a fare una consultazione on line tra startupper, opinion leader, venture capitalist e altri operatori del settore. Efficienza e trasparenza. Per il Rapporto in inglese Fusacchia chiede su Twitter consigli per trovare un bravo traduttore. Inusuale

2. La libertà di pensiero. Leggendo il rapporto si capisce che non ci sono stati limiti alla riflessione. Le proposte possono essere discutibili e saranno certamente discusse ma la visione è ampia e ambiziosa. Un coraggio che dovremmo ritrovare tutti.

3. La chiarezza di esposizione. Anche chi non sa nulla di start up, può leggerlo. Sicuramente alla fine ne saprà di più. Anche graficamente il Rapporto è attraente: lo schema espositivo è chiaramente enunciato, i temi più tecnici sono isolati in riquadrati colorati, l’infografica sintetizza i passaggi più importanti. Raramente da un ministero escono documenti simili.

4. La certezza del soggetto. Il rapporto definisce per la prima volta che cosa è o almeno che cosa si debba intendere per startup: un’impresa che ha meno di 4 anni, è controllata al 51% da persone fisiche, ha un fatturato inferiore ai 5 milioni di euro, non distribuisce utile e ha una contabilità trasparente che non prevede l’uso di un cassa contanti. Chiaro i messaggio?

5. La visione organica. Il gruppo di esperti non si è limitato a guardare solo nel proprio cantuccio. E di fatto prende spunto dalle nuove imprese per rilanciare l’idea di un Paese in grado ci capire e alimentare l’innovazione.

6. La visione internazionale. E’ visivamente evidente, nelle tabelle sugli altri Paesi, che l’Italia è indietro. Ma è anche clamorosamente evidente che altrove non ci sono attività eccezionali sulle start up. C’è solo una maggiore facilità generale di fare impresa.

7. L’urgenza dell’azione. Non si può non fare qualcosa e subito: il messaggio non è poi tanto latente. E in molti passaggi si sente il tono “evangelico” di chi crede di avere una missione da svolgere. Ogni tanto non guasta in un Paese stordito dal cinismo d’accatto.

8. La rivoluzione culturale. Non può esserci cambiamento economico senza una nuova consapevolezza. Parola ricorrente nel Rapporto, che per questo punta sul ruolo della scuola e del servizio pubblico televisivo (sic!).

9. Il realismo politico. Tutto quel che c’è da fare non sarà possibile senza tenere conto dei vincoli istituzionali, dei limiti di spesa e delle opportunità territoriali (il ruolo delle Regioni). L’assenza di velleitarismo è senz’altro un valore.

10. L’attenzione al sociale.  Non c’è solo il business della nuova economia digitale. Agevolare la nascita di nuove imprese significa anche dare nuove significato a quelle con un obiettivo sociale.

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Giovanni Iozzia

Ho lavorato in quotidiani, settimanali e mensili prevalentemente di area economica. Sono stato direttore di Capital (RcsEditore) dal 2002 al 2005, vicedirettore di Chi dal 2005 al 2009 e condirettore di PanoramaEcomomy, il settimanale economico del gruppo Mondadori, dal 2009 al maggio 2012. Attualmente scrivo su Panorama, panorama.it, Libero e Corriere delle Comunicazioni. E rifletto sulle magnifiche sorti progressive del giornalismo e dell’editoria diffusa.  

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