l tormentone sugli italiani pagati troppo poco è finito perfino su Quattroruote, la bibbia degli automobilisti. Intervistato dal mensile specializzato in motori, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, ha dichiarato: «La natura del ritardo in Italia della transizione verso le auto elettriche è un fatto principalmente di ordine economico, perché il salario medio italiano avrebbe bisogno di un’integrazione almeno del 50 o 60 per cento per essere alla pari del salario tedesco». In altre parole, in Italia si vendono poche auto elettriche perché le retribuzioni sono basse. Non è una novità ed è bene che il governo ne sia consapevole: siamo al 21° posto per salario medio tra i 38 Paesi più industrializzati del mondo, subito dopo la Slovenia. Ed è l’unico in cui gli stipendi valgono meno di 30 anni fa. Una situazione che fa soffrire gli italiani, alle prese con un’inflazione tornata a mordere il potere di acquisto: dal Salary Satisfaction Report 2023, un’indagine condotta annualmente dalla società di consulenza retributiva JobPricing, emerge che ben il 65 per cento dei 1.585 lavoratori intervistati si dichiara leggermente o fortemente insoddisfatto del pacchetto retributivo.
Non solo: le aspettative per la futura retribuzione non sono positive, oltre due lavoratori su tre non si ritengono fiduciosi su miglioramenti per il prossimo anno. Va però sottolineato che l’indice di soddisfazione è più basso nelle piccole e medie imprese e migliora nelle grandi. Del resto, lo scenario degli stipendi è molto variegato e fare di tutta un’erba un fascio non è corretto, i salari non sono insoddisfacenti ovunque. Lavorare in una grande azienda garantisce migliori condizioni retributive rispetto alle piccole. Infatti si ritiene che una delle ragioni per cui i salari degli italiani sono inferiori a quelli francesi, tedeschi o inglesi affonda le sue radici proprio nella struttura del nostro capitalismo, dominato appunto da imprese di dimensioni modeste: dinamiche, certo, ma dotate di meno fondi e di minore possibilità di offrire sfolgoranti prospettive di guadagno e carriera.

Ma quanto è grande la differenza tra lo stipendio di un dipendente di una grande azienda e uno di una piccola? Per rispondere a questa domanda Panorama ha chiesto a JobPricing di realizzare un’indagine ad hoc per i nostri lettori spulciando tra i 650 mila dati del loro database. E da questa analisi risulta che la retribuzione media annua lorda nelle imprese con oltre mille occupati è pari a 37.516 euro, il 40 per cento in più rispetto ai 26.773 euro pagati dalle micro-società con meno di 10 dipendenti. Il gap tra grandi aziende e piccole fino a 50 lavoratori (29.999 euro di stipendio) scende al 25 per cento. Se poi il confronto si fa tra grandi e medie imprese fino a 250 assunti, la differenza a favore delle prime è pari al 14 per cento. Il miglior trattamento economico riconosciuto dalle società di maggiori dimensioni riguarda tutti gli inquadramenti, dai dirigenti fino agli operai (tabella a fianco).
Non è tutto. A JobPricing abbiamo domandato un ulteriore approfondimento sulla differenza tra gli stipendi pagati dalle multinazionali straniere presenti in Italia e il resto delle aziende nazionali. Il risultato? Secondo i dati raccolti, la sede italiana di una multinazionale estera paga in media un salario annuo lordo di 34.744 euro mentre l’impresa-tipo italiana 27.457 euro: la differenza a favore del gruppo internazionale è del 26,5 per cento. Da notare che anche le multinazionali italiane con sedi operative all’estero pagano bene, allineandosi alle concorrenti straniere. Di fronte ai risultati di questa ricerca, Alessandro Fiorelli, partner & Ceo di JobPricing, commenta: «Personalmente direi che l’elemento di maggiore interesse è senz’altro il fatto che resta un gap significativo fra le retribuzioni delle aziende multinazionali straniere e quelle italiane, anche se come si vede la differenza tende a calare nel momento in cui confrontiamo aziende multinazionali con filiali in Italia o aziende multinazionali italiane che hanno sedi operative all’estero. Probabilmente questo è dovuto al fatto che in entrambi i casi le politiche retributive sono gestite sul perimetro extra nazionale che richiede di allineare i compensi del personale italiano con quello del personale in forza in altri Paesi».
Quindi una prima conclusione che si può trarre è che per guadagnare di più conviene essere assunto da una grande impresa, meglio se multinazionale. Ma le piccole e medie aziende stanno recuperando terreno sul fronte delle retribuzioni. Leggendo i dati, Fiorelli sottolinea che «un fattore interessante è che il gap tra le multinazionali e le imprese italiane piccole e medie si è ridotto. Probabilmente dipende dal persistente fenomeno del cosiddetto talent shortage che ha costretto anche le aziende più piccole a cercare di essere più competitive con la loro offerta per attrarre il personale e non perdere quello di maggior qualità: naturalmente si tratta di un problema non banale se si considera questo tipo di struttura competitiva, molto spesso basata su costi del lavoro compressi».
Analizzando il trend dell’ultimo anno e di lungo periodo si osserva infatti una maggiore crescita delle retribuzioni nelle piccole e medie aziende rispetto a quelle di maggiore dimensione: tra il 2021 e il 2022 i salari lordi annui sono saliti del 4 per cento nelle aziende micro, del 3,3 per cento nelle piccole e del 2,4 nelle medie, mentre nelle grandi imprese sono aumentati solo dell’un per cento. Simile la dinamica nel periodo 2015-2022: più 6,4 per cento nelle micro, più 5,3 nelle piccole, più 1,5 nelle medie e 2 per cento nelle grandi. Come sostiene Fiorelli, il recupero da parte delle società medie e medio-piccole italiane si spiega con la necessità di diventare più attraenti per talenti sempre più difficili da trovare. Secondo il Bollettino del sistema informativo Excelsior di settembre, realizzato da Unioncamere con Anpal, la difficoltà di reperimento coinvolge ormai il 48 per cento delle assunzioni programmate delle imprese, in aumento di 5 punti percentuali rispetto a 12 mesi fa. Per molte figure tecnico-ingegneristiche e di operai specializzati tocca quote tra il 60 e il 70 per cento.
La ragione di queste difficoltà, ricordano gli esperti di JobPricing, sembra risiedere, a detta di numerosi studi, nella crescente insoddisfazione delle persone, soprattutto i giovani e le donne, verso i modelli di lavoro tradizionali, e nella conseguente ricerca di opportunità a condizioni più eque, trasparenti e con un miglior bilanciamento tra lavoro e vita privata, anche a costo di rifiutare le opportunità non soddisfacenti. Inoltre, l’enorme sviluppo dello smart working, prima forzato dalla pandemia e poi diventato normale anche nelle aziende più piccole, accelera una tendenza di trasformazione dell’organizzazione del lavoro verso modelli nuovi e più sostenibili, che ha come punta avanzata il dibattito sulla settimana «cortissima». Uno scenario che non può che avere significativi impatti sulle dinamiche salariali: per i dipendenti delle imprese medie e medio-piccole, una luce di speranza in fondo al tunnel.