Sull'auto elettrica la scure della legge Usa contro il lavoro forzato
Negli USA temono che batterie siano costruite dagli schiavi e viene chiamata in causa la UFLPA
Lo Uyghur Forced Labor Prevention Act (UFLPA) cioè la legge degli Stati Uniti sulla protezione del lavoro forzato uiguro potrebbe presto colpire anche l’industria delle auto elettriche e più specificatamente quei componenti come le batterie agli ioni di litio, il cuore dell’auto elettrica, o le principali materie prime come alluminio e acciaio.
Quando circa un anno fa la legge venne introdotta causò un terremoto nell’intera filiera dell’industria solare statunitense, secondo l'U.S. Solar Market Insight 2022 le installazioni su scala industriale crollarono di quasi un terzo rispetto all’anno precedente con il totale più basso del settore da prima della pandemia di COVID-19.
La legge proibisce l'importazione di beni prodotti nella regione cinese dello Xinjiang, in assenza di prove che la loro produzione non abbia comportato l’utilizzo di lavoro forzato. Nel caso del settore fotovoltaico la legge si concentrava sul fatto che il polisilicio, la materia prima per la costruzione di miliardi di pannelli solari che vengono venduti in tutto il mondo, veniva prodotta, in larga parte, in due fabbriche nella landa desolata del deserto del Gobi nello Xinjiang, una regione autonoma nel Nord-ovest della Cina, un territorio di deserti e montagne.
Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti nel gennaio 2021 affermò che un milione di musulmani Uiguri erano stati internati nei campi di concentramento nella provincia dello Xinjiang, o costretti a lavorare in fabbriche, comprese quelle che producono pannelli solari. Il Dipartimento di Stato si spinse a definire il trattamento del governo cinese degli uiguri “genocidio”, circa un anno dopo veniva introdotta la legge sulla prevenzione del lavoro forzato uiguro.
Ma oggi l'aumento delle ispezioni dei prodotti destinati agli impianti di assemblaggio di automobili da parte della US Customs and Border Protection (CBP) può essere un indizio che in un prossimo futuro anche le case automobilistiche dovranno dimostrare che le loro catene di approvvigionamento sono prive di collegamenti con lo Xinjiang. Secondo Reuters la CBP non ha specificato se sia in atto un maggiore controllo sulle importazioni automobilistiche ma ha spiegato che la loro funzione "è là dove ci sono rischi elevati nelle catene di approvvigionamento degli Stati Uniti".
Già nel dicembre dell’anno scorso il sindacato americano United Automobile Workers (UAW) con sede a Detroit aveva citato un report dei ricercatori della britannica Sheffield Hallam University che evidenziava come molte materie prime dell'industria automobilistica come acciaio, alluminio e rame, e componenti, quali le batterie o l’elettronica, venissero prodotti nello Xinjiang.
Secondo il report in molte fasi del processo industriale, dall'estrazione e raffinazione delle materie prime alla prefabbricazione e all'assemblaggio dei componenti risulta evidente la presenza del lavoro forzato uiguro. Queste considerazioni si riflettono sui dati del CBP, che mostrano come trentuno spedizioni di materiali destinati ai settori automobilistico e aerospaziale siano state trattenute ai sensi del Uyghur Forced Labor Prevention Act dal febbraio di quest'anno. Analoga sorte è capitata anche ad una serie di metalli di base, come alluminio ed acciaio, per una valore che è aumentato vertiginosamente dal milione di dollari al mese alla fine del 2022 agli attuali 15 milioni di dollari al mese.
Sebbene questi importi siano contenuti rispetto all’oltre miliardo di dollari di importazioni di pannelli solari che sono bloccate al confine in attesa della documentazione richiesta per dimostrare che non sono stati prodotti con lavoro forzato, hanno comunque messo l'industria automobilistica in allerta sui potenziali rischi che comporterebbe l’impatto della legge sulla protezione del lavoro forzato uiguro sull’approvvigionamento futuro delle batterie agli ioni di litio delle loro auto elettriche.
Per quanto visto in precedenza, dal caso del cobalto nella Repubblica Democratica del Congo culminato con la causa intentata dall’International Rights Advocates contro Apple, Google, Microsoft, Dell e Tesla, alle varie inchieste giornalistiche sulla grafite estratta in due provincie della Cina, Shandong e Heilongjiang o allo stesso caso del lavoro forzato nello Xinjiang, solo per citarne alcuni, la risposta delle aziende coinvolte è stata spesso pilatesca “Richiediamo ai nostri fornitori di conformarsi alle normative locali e alle leggi e regolamenti ambientali, e di essere datori di lavoro equi, umani e leciti, applicando requisiti simili anche ai loro fornitori.”
Ma questo potrebbe non essere più sufficiente: presto quelle aziende che non hanno mappato le loro catene di approvvigionamento dei minerali critici e delle parti dei sottoinsiemi dei loro veicoli elettrici provenienti dalla Cina potrebbero correre dei concreti rischi di blocco delle loro forniture già nella seconda metà dell'anno. D’altra parte tracciare la provenienza di questi prodotti è estremamente complesso poiché materie prime e componenti di più fabbriche si mescolano lungo la catena di approvvigionamento cinese ed anche se viene trovato un collegamento con lo Xinjiang, ciò che accade all’interno delle fabbriche rimane sconosciuto.
Ovviamente Pechino nega qualsiasi abuso. La Cina nega gli abusi nello Xinjiang, sostiene di aver istituito "centri di formazione professionale" per frenare il terrorismo, il separatismo e il radicalismo religioso. Ma sempre più emerge una verità costituita da centinaia di migliaia di persone che languiscono in questi campi di rieducazione mentre prende forma una delle più grandi storie di diritti umani violati che il Partito Comunista Cinese sta attivamente cercando di insabbiare.
Esiste poi anche la faccia occidentale della medaglia. Perché questo potrebbe significare che presto, come i milioni di proprietari di case che hanno scelto di installare i pannelli solari, anche gli acquirenti di un’auto elettrica si troveranno di fronte ad una scelta morale: un ipotetico futuro green costruito dalle aziende più inquinanti del Pianeta o considerare inaccettabile il lavoro forzato e quindi rifiutarsi di acquistare veicoli elettrici contenenti componenti cinesi?
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