Veneto, la rabbia degli imprenditori
A Treviso cresce l'insofferenza per gli interventi, pochi e sbagliati, in economia. E il governatore Zaia è costretto a diventare latore del territorio
La linea del Piave, l’ha oltrepassata poco prima dell’estate Massimo Finco, agguerrito presidente di Assindustria Venetocentro. Davanti a centinaia di imprenditori riuniti a Treviso, è esploso: «Di Maio non l’ha mai assunto nessuno perché non ha mai lavorato in vita sua. Che ne sa? Ma è a Zaia e alla Lega del nostro territorio che ci rivolgiamo. Di fronte al Decreto dignità, non si può far finta di niente in cambio di un barcone di immigrati fermato». Gelo, in una sala abituata alle fumisterie. Il re è nudo. Il giorno dopo, il presidente del Veneto, Luca Zaia, chiede pubblicamente una modifica del Decreto. E Camera e Senato elaborano contentini, come la reintroduzione dei voucher.
Troppo poco. Le imprese venete continuano a ribollire. E la provincia di Treviso, che esporta più della Grecia, è l’epicentro dello scontento. Prima il lungo stallo, sopo le elezioni. Poi l’attesa prima misura economica, quel Decreto dignità tanto avversato. Adesso, dopo la tragedia del Ponte Morandi a Genova, l’odor di statalizzazioni. E, a breve, il dito negli occhi: il reddito di cittadinanza.
Così, dal suo quartier generale di Montebelluna, Andrea Tomat, l’imprenditore ha rilanciato Lotto e creato Stonefly, non ci gira attorno: «Nessuno è ancora fuori dalla crisi» premette l’ex presidente degli industriali del Veneto. «Continuiamo a guardare lo spread ed altri indici, forieri di aleatorietà e incertezza». Come giudica il piano economico gialloverde? «Mi scusi, quale? Quando s’è formato questo governo ero contento: sempre meglio dello stallo. Dopo tre mesi, non ho ancora letto un programma. Prima, bene o male, si parlava di politica industriale. Adesso, zero assoluto. Non c’è alcuna attenzione per le imprese. Si gestisce solo l’emergenza. Sembra il medico della mutua, che corre da un malato all’altro. Viviamo in campagna elettorale permanente».
Tomat, sul divano in pelle nera del suo ufficio, accavalla le gambe. Scuote la testa. «Nell’agenda dei lavori, lei avrebbe dato precedenza assoluta al Decreto dignità o alle scuole che cadono a pezzi? Ai contratti a termine o all’Ilva? Questo paese ha delle priorità. Invece, vedo il vicepremier, Luigi Di Maio, e il ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli, che visitano l’aereo di Renzi per postare poi un video. Io so di non poter perdere un minuto. E loro impiegano due ore per fare un po’ di propaganda?».
Una priorità però c’era: ridare «dignità» ai lavoratori. «Pensano davvero che gli imprenditori si alzano la mattina e ragionano su come soffiare due mesi di contratto ai loro dipendenti? Ma devi essere matto per immaginare una roba del genere!». Eppure, dicono che lei sia vicino alla Lega: «Non ho nessun legame funzionale. Ma è indubbio che Zaia, in Veneto, ha fatto benissimo. Se mi chiedessero: “Firmeresti per avere un governo così?”. Sì, subito. Sarebbe un regalo per tutti. Ma Roma, purtroppo, non è Treviso». Stallo, Decreto dignità, statalizzazioni: il presidente del Veneto non ha lesinato garbate critiche. E oggi sembra l’unica voce in dissenso nella Lega. «Zaia s’è rivelato un ottimo amministratore, con una capacità straordinaria di investire risorse decrescenti. Sanità, scuola, trasporti, sicurezza: la sua gestione è eccellente».
Maggior ecumenismo di Tomat professa il suo successore alla guida degli industriali veneti, Matteo Zoppas, della dinastia di Conegliano: «Il Veneto è una delle locomotive che trainano il paese. Ci aspettavano certamente una prima misura economica più equilibrata. Che tenesse conto sia degli interessi dei lavoratori, che di quelli degli imprenditori. Invece il Decreto dignità rischia di mettere in crisi molte aziende, aumentando la precarietà. E inaspririsce gratuitamente i rapporti con i dipendenti, mettendo a rischio buone relazioni costruite negli anni. Lo schema è: prima creo un problema e poi lo cavalco». Ne avete parlato con Zaia? «E’ stato pronto a trasferire a Roma le nostre istanze, che però non sono state recepite. Forse perché in Italia ci sono più lavoratori che imprenditori...».
Zoppas, però, auspica dialogo e collaborazione. «Abbiamo espresso con forza la nostra opinione. La Confindustria è stata straordinariamente unita. Ha serrato i ranghi. Ma non vogliamo far politica. Ci vogliamo porre costruttivamente al fianco di chi governa». E come pensate di edificare? «Ci sono due anime» ragiona il presidente di Confindustria Veneto. «Una si occupa degli interni. L’altra di economia. I primi passi sono andati in direzione opposta alla crescita. Adesso si deve aprire una nuova fase. Non si deve lavorare più per consolidare il consenso immediato, ma per costruire insieme il futuro industriale dei prossimi cinque o dieci anni».
Nella marca trevigiana il disagio non è solo dell’industria. Ma anche di pmi, commercianti e artigiani. L’humus elettorale della Lega. Vendemiano Sartor, come presidente di Confartigianato Marca trevigiana, rappresenta 12 mila microaziende. «I primi segnali arrivati da Roma convergono: demonizzazione dell’impresa» dice Sartor, seduto in un bar di piazza delle Istituzioni, a Treviso. «Si dimentica però che la ricchezza, prima di redistribuirla, bisogna produrla. Il Decreto dignità rievoca il conflitto tra capitale e lavoro: eppure un’azienda che va bene è una fortuna anche per i dipendenti. Il tema invece è solo predere un voto in più. Elettoralmente, paga maggiormente fermare un barcone che aggiustare un ponte. Ma, come ricordava Alcide De Gasperi, “un politico guarda le elezioni, uno statista alle prossime generazioni».
Alberto Baban, ex presidente della piccola industria di Confindustria, è una delle voci più polemiche che si alzano dal cuore del Nordest. In un ultramoderno open space per eventi ai piedi della Rocca di Noale, città medioevale al confine tra la provincia di Padova e Treviso, l’imprenditore non cela la contrarietà: «Nessuno parla di futuro. Siamo un paese in perenne manutenzione strordinaria, che lavora sulle emergenze. Si fa solo dietrologia, per schierare popolo. C’è un totale diniego del progressismo. Anche Confindustria viene percepita come un coacervo di poteri forti e immutabili elite. Il messaggio populista è: l’industriale è un privilegiato da attaccare» dice Baban, che a maggio del 2017 ha rilevato Maschio Aratri, gruppo da 2.200 dipendenti e 324 milioni di ricavi nel 2017.
«Il popolo, però, capisce cosa significano cento punti di spread?» continua. «Vuol dire consegnare ai nostri figli 23 miliardi di debito in più: l’equivalente di una corposa manovra finanziaria. Sa quante società quest’anno progettavano di quotarsi in borsa e hanno rinunciato? Solo qui attorno, cinque». Aggrotta le ciglia: «Ormai si generalizza su tutto. Anche il Decreto dignità non è stata la costruzione di un pensiero, ma unicamente la volontà di smontare il job acts. Un atto simbolico, per rompere con il passato. Sempre a favor di popolo. Sempre contro qualcuno. Il ritorno al classismo degli anni Settanta».
Interpretazione che, da Oderzo, il senatore leghista Giampaolo Vallardi non fatica a confermare: «Un po’ di maggior tutela per i lavoratori ci voleva. Il governo Renzi era un infiltrato di Confindustria. Bisognava scardinare le logiche del passato». Vallardi è presidente della Commissione agricoltura a Palazzo Madama. E’ stato tra quelli che ha raccolto le pressioni del territorio per riavere i voucher stagionali.
Carlo Giustiniani, presidente di Confagricoltura Veneto, è però perplesso: «Rispetto a prima, c’è stata un’inutile burocratizzazione, con il pagamento all’Inps. E mentre prima i voucher venivano incassati immediatamente, adesso ci possono voler mesi». Vallardi minimizza: «Tutte le cose nuove hanno bisogno di un periodo di adattamento. Se si tratta di affinare qualcosa, lo faremo. Ma non mi sembra poi che i nuovi buoni siano così complicati. Comunque in parlamento basterà una circolare per fare eventuali modifiche».
Bar Lux di Vittorio Veneto: è qui il feudo del segretario nazionale della Liga Veneta, Toni Da Re. «E’ chiaro che il Decreto dignità è molto più sbilanciato a favore dei lavoratori» ammette. «Ma questo fa parte del programma che abbiamo firmato. I cinque stelle c’hanno dato una mano sull’immigrazione. E noi lo abbiamo fatto sul Decreto dignità». Insomma: buon viso a cattivo gioco. «Era una loro priorità, non nostra. C’è stata una levata di scudi. Camera e Senato hanno reso la legge meno drastica. Grazie anche alle pressioni della nostra gente».
E di Zaia, soprattutto. Da Re, leghista da trent’anni, pazientemente spiega: «Non siamo in guerra. Abbiamo solo strategie diverse. Lui deve interpretare le istanze del territorio. Mentre io, da segretario regionale, seguo la linea governativa. Non c’è però contrapposizione. E un po’ un gioco delle parti». Dicono che sarà proprio Zaia a pacificare il centrodestra nazionale, ricompattando populisti e moderati». «Mi pare che quello che può mettere d’accordo tutti ce l’abbiamo già» sogghigna Da Re, dietro i baffoni alla Stalin. «Si chiama Giancarlo Giorgetti...».
(Questo articolo è stato pubblicato sul numero 37 di "Panorama", in edicola il 30 agosto 2018, con il titolo: "Una regione sempre meno serensissima").