La web tax è sacrosanta. E aiuta gli italiani
Francesco Boccia, accusato dagli Usa per avere proposto la "tassa su Google", reagisce: un vuoto normativo danneggia l’erario e i nostri operatori
Francia, Germania, Irlanda, Gran Bretagna, Spagna... In Europa molti pressano l’Ue affinché intervenga sui giochi contabili che fanno risparmiare a Google, Apple e altri giganti del web centinaia di milioni di euro in tasse. Ora, sostiene la rivista Usa Forbes, anche in Italia c’è un uomo «pericoloso». Lui, Francesco Boccia, presidente pd della commissione Bilancio della Camera, che si credeva una persona perbene, per fortuna ci ride sopra. Pensa che l’Italia possa fare da «apripista per Bruxelles», pur non capacitandosi che quel giornale abbia definito «illegale» la sua proposta di legge: la cosiddetta Google tax, con cui intende sottoporre a una nuova imposizione fiscale i giganti del web. I quali di escamotage ne conoscono parecchi: è la cosiddetta ottimizzazione fiscale.
Non è che per caso lei ce l’ha con Google e simili?
Al contrario, sono un utente soddisfatto, come centinaia di milioni di persone.
La chiamano tutti Google tax, come mai?
Il soprannome è fuorviante. Web tax, altro nomignolo che gira, rende meglio l’idea. La proposta interessa tutte le piattaforme online che producono reddito in Italia. Consiste in una nuova imposizione tributaria a misura della nuova economia digitale.
Un colpo nello stomaco degli ottimizzatori fiscali.
Ma la colpa non è delle aziende, che semplicemente sfruttano a proprio vantaggio l’assenza di norme tributarie. Il fatto è che esiste un vuoto normativo da riempire, visto che lascia la porta aperta a pratiche elusive.
Elusive?
Quel vuoto fa sì che i ricavi prodotti in casa nostra, grazie alle risorse che gli italiani spendono sulla rete, generino flussi di denaro che poi finiscono all’altro capo del mondo. Il mancato gettito erariale che consegue da questi spostamenti dà luogo a un’emorragia di risorse finanziarie paurosa che non ci possiamo permettere.
E il conto chi lo paga?
Gli operatori italiani, le tante nostre start-up che non sono messe in condizione di competere equamente con le grandi multinazionali digitali.
Intanto la Apple è finita sotto inchiesta a Milano per dichiarazione fraudolenta dei redditi.
Appunto.
E se poi questi colossi smettono d’investire in Italia?
Tenuto conto del fatto che finora non hanno investito un centesimo qui da noi, direi che il pericolo non sussiste. E chissà che qualcosa non cambi una volta che le loro controllate in Italia avranno adottato la partita Iva, come la proposta prevede.