Gianni Zonin, l’italiano che ha messo i vigneti nell’America del tabacco
In Virginia, vicino alla tenuta dell’ex presidente americano Jefferson, Gianni Zonin si lanciò nel 1976 in un’avventura che molti consideravano folle: rimettere in attività le coltivazioni che due secoli prima erano state abbandonate. Una sfida che ha cambiato la mappa vinicola degli Usa.
a prima volta, si sa, non si scorda mai. E Gianni Zonin si ricorda bene quel giorno del 1976 in cui arrivò in Virginia, ai confini della tenuta che nel primo ’800 era appartenuta a James Barbour, amico e vicino di casa di Thomas Jefferson: boschi popolati di cervi, colline dolci ma non troppo, un po’ Langhe, un po’ colli Euganei. Ma, a sorpresa, ecco che l’occhio attento del viticoltore di Gambellara, Veneto profondo, vede spuntare tra i rovi la vite selvatica. Più d’una, tanto da convincerlo che "questa è terra da vino", l’Eden che da mesi andava cercando nel Nuovo Mondo.
È cominciata così l’avventura americana del cavalier Zonin, classe 1938, una laurea in legge (anche per far piacere alla mamma), diploma all’istituto di enologia di Conegliano Veneto su spinta dello zio Domenico, il fondatore di quella che è diventata la più grande casa vinicola italiana. Un’avventura, quella americana, culminata a gennaio a New York con la consegna dell’Oscar alla carriera che la rivista Wine Enthusiast riserva ai grandissimi del vino: Piero Antinori, Edmund de Rothschild, Miguel Torres o Robert Mondavi, il padre di Napa Valley. Un ristretto Olimpo in cui Zonin è stato ammesso perché, dice il direttore Adam Strum, "è stato il primo a guardare non solo oltre la propria regione, ma addirittura attraverso l’Oceano. Gianni Zonin è un pioniere del vino".
Non è da tutti conquistare l’etichetta di pioniere nella terra delle opportunità. Ma per conquistarla Zonin ha vinto una sfida che, per gli esperti, gli avrebbe procurato, al più, solo qualche damigiana d’aceto. La pensavano così i guru dell’epoca, compreso il padre dell’enologia Usa: Harold Olmo dell’Università della California, lo scienziato cui Napa Valley e l’Australia devono i vitigni più preziosi. "Andai a trovarlo prima di chiudere l’acquisto di Barboursville" ricorda l’imprenditore "per sentirmi dire che, se volevo fare del vino in America dovevo andare in California. Al più in Oregon. In Virginia avrei perso solo soldi...". Ma Zonin, più che al consiglio dello scienziato decise di dare retta alla lezione impartitagli dallo zio Domenico che gli affidò, a soli 29 anni, la guida della ditta. "Il primo assegno me lo consegnò avvolto in carta da macellaio dicendomi: impara Gianni, nella vita conta la sostanza, non l’apparenza". E quelle viti selvatiche promettevano molta sostanza. Come aveva intuito, due secoli prima, Jefferson che assieme all’amico italiano Filippo Mazzei, pisano eroe dell’Indipendenza americana, aveva cercato di importare l’arte del vino assieme a sei famiglie di mezzadri fatti venire dalla Toscana. Ma la "Piedmont region", come la chiamava Jefferson, si rivelò ingrata: le viti importate dall’Europa furono aggredite e distrutte dalla filossera e da altri parassiti. Da allora, anno 1774, di vino in Virginia non si parlò più. Fino all’arrivo di mister Zonin, missionario di Bacco in un paese dai palati avvezzi a Coca-Cola e birra Budweiser.
Oggi, infatti, Barboursville Vineyards, 870 acri coperti di vigneti, non è solo la prima azienda vinicola dello stato con le sue quasi 500 mila bottiglie ("nel 2020 contiamo di arrivare a 1 milione" anticipa Zonin "perché ogni anno piantiamo nuove viti") ma è anche l’ammiraglia che ha reso possibile una piccola rivoluzione: oggi 275 aziende vinicole, tutte dotate di bed & breakfast, ospitano i turisti che a migliaia arrivano da Washington, Richmond o addirittura da New York per un weekend che ricorda Barolo o Montalcino. Soprattutto nella tenuta più prestigiosa: Barboursville Vineyards, incrocio tra la vecchia America e il tripudio delle uve curate con amore da Luca Paschina, il manager torinese, scuola di enologia ad Alba: Chardonnay, Sauvignon, Vermentino, Viegnier, Merlot, Cabernet, Shiraz, Nebbiolo, Barbera, da quest’anno pure il Fiano e, gemma locale, l’Octagon, la gran riserva che prende il nome dall’enoteca sulla collina, curata con gusto veneto dalla signora Silvana, moglie e madre dei figli, l’ottava generazione degli Zonin, tutti e tre in azienda: Domenico, 40 anni, Francesco, 39, e Michele, 36. "Forse uno di loro restaurerà la villa disegnata da Jefferson" commenta il signor Gianni. Ne varrebbe la pena, perché la mansion, danneggiata da un incendio a fine ’800, è davvero un gioiello. "In molti mi chiedono di farlo" replica "ma che me ne faccio? Un domani, forse, uno dei miei figli sceglierà di vivere qui". Poi, dopo una pausa, aggiunge: "Le tenute sono come straordinari dipinti seppelliti dal tempo: bisogna restaurarle, ripulirle. E frequentarle".
Vale per il Castello d’Avola, nel cuore del Chianti, come per questa tenuta old America che divide la tenuta di Jefferson, a Monticello, dalle piantagioni del presidente James Madison. Sotto la guida di Zonin e il tocco della signora Silvana le capanne degli schiavi sono diventate cottage per il weekend, davanti a cui spiccano gazebo alla Via con vento, sotto la sagoma dell’Ottagono (omaggio all’architettura massonica di Jefferson) che domina la collina. Oltre il colle, poi, ci sono le vigne che crescono sotto la guida di Paschina, l’enologo giramondo che qui ha messo le radici. Zonin passa in rassegna le colline con l’occhio del generale soddisfatto: pali ben piantati nel terreno, filari distanti 2 metri e 40, colline spianate, i lavoranti messicani che curano i rami.
Eppure, prima di Paschina, che presto entrerà nel consiglio della casa madre, cinque manager hanno alzato bandiera bianca di fronte a una missione all’apparenza impossibile. "I primi 10-12 anni sono stati davvero duri. A un certo punto ho pensato di vendere tutto. Le offerte c’erano..." confessa il presidente. C’è voluto tanto tempo perché i vitigni in arrivo dal Maryland (tre bottiglie tre la prima vendemmia) dessero una qualche soddisfazione. Ma questo non era il problema principale perché, si sa, l’arte di fare il vino richiede pazienza, pazienza e ancora pazienza. Quella che non avevano le autorità della Virginia, fredde se non proprio ostili di fronte alla prospettiva del Virginian wine. "Il futuro della Virginia sta nel tabacco, non nel vino" aveva detto sbattendo sul tavolo una scatola di sigari il ministro dell’Agricoltura davanti a Gabriele Rausse, il primo manager della tenuta, che oggi cura la tenuta di Monticello, la villa palladiana di Jefferson a poche miglia da Barboursville, vigna e cantine incluse. "Un giorno" racconta "sono stato convocato a Richmond per subire un vero e proprio terzo grado, al termine del quale un professore mi ha detto: fate pure quel che volete, ma guai a voi se convincerete un solo nostro contadino a seguirvi in quella follia". Solo Felicia Warburg Rogan, scrittrice scesa da New York con il terzo marito, John Rogan, diede una mano ai pionieri made in Italy, fiera dopo fiera, da Charlottesville, la capitale universitaria dello stato, fino a Monticello, recuperata all’antica passione del vino di Jefferson. Acqua, anzi vino passato. Ormai l’enologia è il settore agricolo della Virginia che cresce di più. E Paschina, tra una spedizione ai ristoranti top di Chicago e Miami e le visite dei grandi critici dei giornali di New York, che ormai includono la Virginia nei loro tour in cantina, si è conquistato, primo (anzi unico) italiano il titolo di Man of the year del ministero dell’Agricoltura.
Dunque, un’altra missione compiuta da Zonin, imprenditore della terra prestato, con grande successo, all’arte della banca: la "sua" Popolare di Vicenza scoppia di salute in un momento difficile e punta a crescere, ma con prudenza. "Mi diverto a fare entrambe le cose" si limita a dire, evitando di esporsi sui dossier, non pochi, delle possibili prede. "In mezzo a tanti illustri colleghi cresciuti in banca non guasta il tocco di chi vive l’esperienza dell’impresa. Ma il mestiere di viticoltore resta il più bello del mondo".
Del resto, nell’ultimo mezzo secolo il vino italiano ha conquistato fatturato e prestigio. "Mi ricordo bene" spiega scherzando ma non troppo "i tempi in cui quando mi presentavo succedeva che la gente mi dicesse: “Ah, lei è uno di quelli che fa il vino anche con l’uva”. E invece oggi il vino è uno dei pochi settori economici italiani in crescita". Anche grazie ai primati della Zonin, spa dal 1967 quando zio Domenico volle cedere la presidenza a Gianni che in azienda lavorava da dieci anni, prima come operaio ("Per volere di mio zio" ricorda "tre mesi che mi hanno insegnato ad affrontare i problemi dei miei lavoratori, con i quali mi sono sempre messo d’accordo anche nei momenti più difficili"), poi alla guida della cantina e, soprattutto, alla commercializzazione "perché fare il buon vino non è facile ma venderlo è ben più difficile". È allora che Zonin junior medita la rivoluzione, quella che lo porterà a un passo dallo strappo con lo zio Domenico. Il futuro, è il ragionamento, appartiene alla qualità. Ma per controllare la qualità (e creare un marchio) bisogna anche produrre, non solo imbottigliare il prodotto delle vigne altrui. E bisogna fare quello che nessun signore del vino ha ancora osato fare: uscire dalle terre di casa e allargare l’offerta ad altre regioni. È quello che Gianni fa trattando l’acquisto di quella che ancora oggi resta la gemma più preziosa del suo impero: Ca’ Bolani, 550 ettari dell’agro di Aquileia, da cui nascono i bianchi friulani d’eccellenza. "Al momento di concludere l’acquisto, lo zio si tirò indietro: Gianni, lascia tutto e paga la penale. Con le vigne non si fanno i soldi". E lei? "Ho dato le dimissioni. Io vado avanti lo stesso, caro zio. Qualche banca, gli dissi, mi farà credito. Alla fine, di malavoglia, lui cedette. Ma qualche anno dopo mi chiamò per dirmi: Gianni, avevi ragione tu...". Oggi il primo gruppo vitivinicolo italiano ha un fatturato di 152 milioni di euro contro 140 a fine 2012 e i 5 milioni del 1970. Ovvero più di 45 milioni di bottiglie (erano 42 l’anno prima) al 75 per cento vendute in più di cento paesi, anche attraverso la Zonin Usa e la Zonin Uk, le due principali armi commerciali dell’impero del vino.
E ancora 830 dipendenti tra Gambellara, le società estere e le tenute del gruppo: 4 mila ettari di terreno, la metà a vigna, nelle sette regioni italiane di maggior prestigio per i grandi vini. A partire dalla tenuta di Ca’ Bolani, primo acquisto, anno 1970, oltre i confini del Veneto. E poi: l’Abbazia Monte Oliveto a San Gimignano e la maremmana Rocca di Montemassi; in Piemonte il Castello del Poggio in quel di Portacomaro, terra avita di Papa Francesco e, poco più a Oriente, la tenuta Il Bosco nell’Oltrepò pavese. Infine dalla fine degli anni Novanta, il grande passo verso i vini dell’area mediterranea con il Feudo Principi di Butera in Sicilia e la pugliese Masseria Altemura.
Una crescita ragionata: grazie allo shopping la Zonin spa si è messa al riparo dai cicli della domanda ("Anche i vini conoscono le mode: oggi il Chianti soffre, tra due 2-3 anni le cose cambieranno, se si faranno le mosse giuste") e ha acquisito la massa critica necessaria. "Con due ettari di grande vino non vai da nessuna parte" sentenzia. "La Zonin dispone di un team di 32 esperti, tra enologi e agronomi e può permettersi un consulente come il preside della scuola di Bordeaux". Ma, più di tutti, nel Sud Italia come in Virginia, conta lo spirito del talent scout che ama scoprire i gioielli nascosti. "Mi riconosco alcuni meriti" spiega senza false modestie. Cioè? "Aver dato il via al boom del Prosecco, così forte che quest’anno abbiamo dovuto ricorrere al terzo turno per soddisfare la domanda per il Natale. La riscoperta del primitivo di Manduria, che ha sorpreso pure me, al punto che piovono gli ordini, ma non abbiamo più vino in magazzino. E poi il Nero d’Avola rilanciato sul mercato mondiale, la valorizzazione della Bonarda, il Refosco, che ho scoperto io. E il Fiano del Salento, il vino degli antichi romani".
E adesso? "Adesso faccio un passo indietro" dice mister Wine Enthusiast ridendo con gli occhi come sanno fare solo i veneti. "L’anno prossimo lascio la presidenza a uno dei tre figli. E nel consiglio ci saranno manager, tra cui Paschina e amici di famiglia". E lei? "Farò il presidente onorario e mi guarderò in giro. No, non in Italia. Ma a Est, dalle parti del Mar Nero, ci sono vigneti assai interessanti. Chissà, se non ci saranno troppi ostacoli politici, si potrebbe far qualcosa... ".