Eminem vira verso il pop in "Revival" e va fuori strada - Recensione
L'album del rapper di Detroit è inutilmente zuccheroso nei duetti pop e poco ispirato, soprattutto nella musica, nei brani più politici
Iniziamo la recensione con un ricordo personale, necessario per il discorso che intraprenderemo più avanti.
Nel 2003 ho visto in diretta la cerimonia degli Oscar, a un'ora improponibile della notte, solo perché Eminem, di cui custodivo gelosamente tutti gli album originali, era candidato a vincere il premio come Migliore Canzone Originale (un riconoscimento mai conquistato prima di allora da un rapper) con Lose yourself, oggettivamente un capolavoro dell'hip hop.
Ricordo nitidamente la gioia del momento in cui è stata annunciata la vittoria della canzone, brano portante del film semiautobiografico 8 mile, e la delusione perché l'ineffabile Marsall Mathers, credendo di non aver vinto, era nel frattempo tornato a casa, sostituito last minute da Luis Resto, uno degli autori di Lose Yourself, che, non aspettandosi di dover parlare in mondovisione, farfugliò alcune frasi di circostanza, in evidente stato di imbarazzo, mentre riceveva la preziosa statuetta.
Fatta questa necessaria premessa, per mettere subito in chiaro che non ho nulla contro Eminem (anzi), possiamo iniziare a parlare del nuovo album Revival, pubblicato il 15 dicembre (lo stesso giorno di un album moderno e riuscitissimo come No one ever really dies dei N.E.R.D.) dalla Universal, con una semplice domanda: perché?
Perché un artista geniale, fecondo e rispettato anche dai colleghi di colore, che ha venduto 124 milioni di dischi e 171 milioni di singoli nel mondo, che può vantare in bacheca 13 Grammy Awards e che è stato nominato da Billboard come "Artista del Decennio" per il periodo 2000-2009, sente il bisogno di pubblicare, a fine anno, un album così piatto, prolisso, inutilmente zuccheroso nei duetti pop, poco ispirato nei brani più politici, con dei beat (opera di Rick Rubin e Dr Dre) talmente vecchi e tediosi nei suoni da invitare allo skip dopo pochi secondi.
Se Eminem voleva allargare il suo pubblico ai più giovani, non sarà certo questo abum a convincerli ad abbandonare la trap, mentre i suoi vecchi fan, che tanto hanno amato tre gioielli come The Slim Shady LP, The Marshall Mathers LP e The Eminem Show, resteranno delusi.
Prendete In your head e Remind me, due brani in cui vengono campionati rispettivamente Zombie dei Cranberries e I love rock'n'roll di Joan Jett & the Blackhearts, due scelte così inflazionate e prevedibili da lasciare costernati, soprattutto per chi ha amato i dischi dei Run Dmc e dei Beastie Boys prodotti da Rubin negli anni Ottanta.
Facciamo due esempi pratici della debolezza di Revival. Andate su Spotify e ascoltate Believe, 5 minuti e 15 secondi di ego trippin' sulla falsariga del tema "se-continui-a-credere-in-te-stesso-ce-la-farai"(topic non proprio originalissimo nel rap), un lasso di tempo che sembra non passare mai, di una noia estenuante.
Non ne avete abbastanza? Ascoltate Framed, 4 minuti e 12 secondi, scanditi da una stanca drum machine e due parti di chitarra, che ti conducono direttamente nella narcolessia, nonostante il testo racconti i modi più ingegnosi per non farsi arrestare dopo un omicidio.
Omicidio che viene perpetrato nei confronti dei nostri padiglioni auricolari, con un base che mostra la preoccupante involuzione di Rick Rubin negli ultimi anni.
I duetti con i campioni del pop Beyoncé, Ed Sheeran, P!nk e Alicia Keys, che in teoria dovrebbero essere i punti di forza dell'album, sono banali, forzati e trascurabili.
Risulta del tutto evidente che gli ospiti si sono limitati qui a fare il compitino, mandando a Rubin la loro parte registrata in studio, senza un reale coinvolgimento nel processo compositivo.
Anche la voce di Eminem, più nasale del solito, non ha la freschezza e l'efficacia di alcuni anni fa, anche se resta l'indiscutibile mestiere nell'incastare rime non banali sui suoi errori di uomo e di padre, sui rapporti burrascosi con l'ex moglie Kim e sul suo acerrimo nemico Trump, a cui dedica ben tre brani: Untouchable, Heat e Offended.
Arrivati alla fine della traccia 19, la mortifera Arose, ispirata dall’overdose da metadone che ha rischiato di ucciderlo nel 2007, dopo 77 minuti e 39 secondi interminabili come la visione di Heimat del regista tedesco Edgar Reitz (che, per la cronaca, dura 15 ore e 40 minuti), si ode il rumore di uno sciacquone.
Evidentemente lo stesso Eminem si è accorto di aver realizzato, con Revival, l'album peggiore della sua straordinaria carriera. Peccato.