Eravamo ebrei: il racconto di Alberto Mieli, uno degli ultimi deportati romani
Oggi novantenne, dopo settant'anni con la nipote Ester rievoca per la prima volta quell'esperienza infernale
Alberto Mieli è uno degli ultimi deportati romani nei campi di sterminio nazisti ancora in vita. Con il trascorrere del tempo è riuscito a superare il rifiuto di parlare degli orrori vissuti in giovinezza e ha aperto l'archivio di quei ricordi indelebili in Eravamo ebrei - Questa era la nostra unica colpa (Marsilio editore, pagine 120), libro quanto mai opportuno in prossimità della Giornata della memoria. Bisnononno novantenne che ama la sua famiglia e ne è riamato, dopo settant'anni racconta per la prima volta alla nipote Ester quell'esperienza infernale, a mo' di medicina per la sua anima e come testimonianza per le nuove generazioni. Sul suo braccio è marchiato per sempre il numero 180060.
"Ho passato anni interi dove non c'era ora del giorno o della notte in cui la mia mente non andava a ripensare alla vita nei campi.
Non c'è stato giorno che il mio cuore e la mia mente non abbiano ripensato a quei posti".
Seguendo la memoria di Alberto riviviamo dapprima la Roma nazifascista e le leggi razziali: suo padre licenziato, lui piccolo scolaro ancora ingenuo allontanato da scuola che si sorprende delle lacrime del preside nel dargli la comunicazione...
"Avevo tredici anni e a quell'età, quando ti dicono che non puoi più andare a scuola, sei addirittura felice.
Non capisci bene che cosa possa significare. Non ti fai domande. Io rimasi in silenzio ad ascoltare. Ma lui aveva ben chiara la partita, conosceva la gravità della cosa. E i suoi occhi parlavano da soli, non li ho mai dimenticati, ancora oggi quando ci penso...
(Gli occhi di nonno si fanno lucidi, carichi di lacrime, che lentamente gli solcano il viso)."
Quando arrivò quel tragico 16 ottobre 1943 che diventò storia e le SS entrarono nel Ghetto di Roma mostrando tutta loro crudeltà, Alberto aveva 16 anni.
"Di quel 16 ottobre non potrò mai dimenticare la rabbia delle SS mentre caricavano gli ebrei sui camion. Sento ancora nelle orecchie le urla stridule di donne che venivano brutalmente strappate ai loro figli. Rivedo le lacrime composte di chi aveva paura".
Le lacrime non possono risalire agli occhi rivivendo l'arrivo ad Auschwitz, l'odore pungente dei corpi che bruciavano nei forni crematori.
"A piedi, dopo un'ora di camminata, arrivammo al campo secondario di Birkenau. La prima cosa che ci colpì fu il puzzo acre che bruciava le narici e faceva lacrimare gli occhi tanto era pungente. Un odore forte e indimenticabile tanto che ingenuamente, in prima battuta, pensammo che il lavoro che ci spettava fosse in un'industria chimica.
Troppo ingenui o forse troppo increduli davanti a una verità così atroce. Come si poteva pensare che esistessero dei forni dove erano bruciati i cadaveri di uomini come noi?".
Alberto Mieli parla del lavoro giornaliero e stremante, delle salme ammassate le une sulle altre, della stanchezza e della fame continua e cieca che pativa, fame che ha portato alla pazzia e poi alla morte migliaia di deportati. Fame di cibo, di vita, di libertà.
"Vedere morire la gente nei campi di concentramento era routine. Quando camminavi per il campo era più che normale che agli angoli delle baracche ci fossero dei corpi accatastati".
Eravamo ebrei - Questa era la nostra unica colpa, redatto con una scrittura chiara e semplice, come il flusso della verità, ridà luce anche a piccole storie, volti incrociati, compagni di umiliazioni, con accuratezza e cuore caldo. La prefazione è di padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa della Santa Sede, mentre la postfazione è di Riccardo Di Segni, rabbino capo della comunità ebraica di Roma.
Ma è dal ringraziamento finale della nipote Ester a nonno Alberto che riportiamo queste toccanti parole:
"Quando ero piccola i tuoi lunghi silenzi venivano giustificati dal tuo passato, l’essere stato in quei campi di morte, dove le barbarie erano la quotidianità e dove la dignità di uomini e donne non esisteva, ci autorizzavano ad accettare ogni tuo atteggiamento. Ma io non capivo. Quando si è bambini non ti dai una ragione, non comprendi perché il nonno non abbia voglia di giocare, di baciarti o di accarezzarti. (...) Oggi finalmente mi è tutto chiaro: tu sei passato attraverso
il “male”. Ma hai voluto far vincere la vita. (...) E se i baci arrivano solo ora, che piccola non sono più, ma anzi sono madre, va bene comunque, perché io un nonno l’ho ritrovato e ho scoperto che l’ho sempre amato".