​Kamala Harris
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Gli errori di Kamala Harris

Sebbene la partita elettorale resti apertissima, la campagna della candidata dem sta mostrando segni di difficoltà. A pesare sono soprattutto alcuni errori commessi ad agosto

La campagna di Kamala Harris è finita in stallo. A certificarlo è stato ieri The Hill, secondo cui, a tre settimane dal voto, la vicepresidente sta perdendo pericolosamente terreno negli Stati chiave. Particolarmente pessimisti si sono mostrati due strateghi dem, ascoltati dalla testata sotto anonimato. “Dovremmo essere su una traiettoria ascendente. Questo è il segno di una campagna che è sulla buona strada per vincere. Il fatto che non lo siamo è quantomeno problematico”, ha detto il primo. “Non è qui che vogliamo essere a meno di tre settimane dalla fine. È terrificante”, ha aggiunto il secondo. Effettivamente i numeri dei sondaggi lasciano poco spazio all’immaginazione. Secondo la media di Real Clear Politics, la Harris ha attualmente un vantaggio dell’1,6% a livello nazionale: a inizio ottobre era al 2,2%. Senza trascurare che Joe Biden, in questo periodo nel 2020, era avanti di ben nove punti. Venendo invece gli Stati chiave, in Pennsylvania e Michigan, Donald Trump è passato lievemente in testa, mentre il vantaggio della vicepresidente in Wisconsin è inferiore all’1%.

Chiariamolo subito: la partita resta aperta, anche perché, come abbiamo visto, la situazione complessiva appare fondamentalmente in bilico. Quello che salta all’occhio però sono i numeri deludenti della Harris a tre settimane dal voto, dopo che, soprattutto ad agosto, una certa fanfara mediatica l’aveva presentata quasi come la candidata certamente vincente. Che cosa è successo?

Cominciamo subito col dire che, al di là di quanto sostenessero alcuni suoi corifei, la vicepresidente non ha mai avuto la vittoria in tasca. D’altronde, la sua campagna ha sempre scontato una debolezza strutturale, essendosi la Harris ritrovata improvvisamente catapultata a candidata presidenziale senza passare dalle primarie e, soprattutto, a soli tre mesi dalle elezioni novembrine. È quindi chiaro che, al netto dei potenti finanziatori e di un ecosistema mediatico all’epoca non troppo ostile nei suoi confronti, la vicepresidente partiva strutturalmente svantaggiata: i fondamentali della corsa, in altre parole, restavano a favore di Trump. Ciò detto, questo non basta a spiegare le difficoltà in cui la campagna della Harris è piombata nelle ultime settimane. Sono infatti stati anche commessi significativi errori, la maggior parte dei quali ad agosto: esattamente nel periodo di massima celebrazione mediatica della candidata dem.

Innanzitutto, la Harris ha sbagliato nella scelta del vice. Se avesse optato per Mark Kelly o per Josh Shapiro, avrebbe bilanciato il ticket, rendendolo più attrattivo per gli elettori centristi e, soprattutto, ciò le avrebbe consentito di disinnescare gli strali di Trump, che non perde occasione per bollare la sua avversaria come un’estremista liberal. Scegliendo Tim Walz, la Harris ha invece spostato il ticket troppo a sinistra, alimentando le critiche dei repubblicani. L’obiettivo della vicepresidente, puntando sul governatore del Minnesota, era quello di corteggiare l’elettorato filopalestinese: un obiettivo che tuttavia non è riuscita a conseguire, visto che il principale comitato politico arabo-americano ha annunciato che, quest’anno, non darà endorsement ad alcun candidato presidenziale. Dall’altra parte, Walz, per le sue gaffe, ha più volte messo in imbarazzo la Harris. E anche nel confronto televisivo con JD Vance si è rivelato tutt’altro che brillante.

Un secondo errore per la Harris è stato quello di evitare interviste giornalistiche per tutto il primo mese di campagna. Agendo in questo modo, ha finito soltanto con l’alimentare dubbi sulle sue capacità e sulla sua leadership. Non solo. Ha anche cominciato a inimicarsi una parte di quella stessa stampa che in un primo momento la trattava con i guanti bianchi. Un errore, quello della Harris, che è proseguito anche quando ha finalmente accettato di farsi intervistare: ha infatti spesso scelto di andare in contesti amichevoli o comunque protetti. Alla Cnn si fece accompagnare da Walz, mentre la Cbs ha montato alcune sue riposte per renderle più efficaci. E comunque, in entrambe le interviste, la diretta interessata non è andata granché bene: è apparsa troppo preimpostata, oltre che eccessivamente generica sulle sue proposte. Tra l’altro, ha mostrato di reggere poco i momenti in cui veniva messa sotto pressione. La situazione non è migliorata con l’intervista rilasciata a Fox News, nonostante, come le altre, fosse preregistrata. La Harris non è riuscita neppure a sfruttare adeguatamente il dibattito con Trump del 10 settembre. Per quanto fosse stata abile a provocare il tycoon spingendolo a rivelarsi fuori fuoco per ampi segmenti del confronto, la vicepresidente non è stata in grado, in quella sede, a scrollarsi di dosso l’immagine di candidata fumosa e preimpostata.

Certo, qualcuno obietterà che, rispetto a Biden, la Harris stia mobilitando più elettori e che risulti maggiormente efficace nel suscitare entusiasmo. Questo è vero, ma fino a un certo punto. Per il sistema elettorale vigente negli Stati Uniti, vincere il voto popolare a livello nazionale può non bastare. Per questa ragione, se si vuole arrivare alla Casa Bianca, è necessario non mobilitare elettori in generale ma mobilitare i segmenti cruciali dell’elettorato negli Stati chiave. Ecco, secondo i sondaggi, la Harris sta performando peggio di Biden nel 2020 rispetto ad alcuni di questi segmenti: cattolici, afroamericani e ispanici. Lo ripetiamo: questo non significa che la vicepresidente sia elettoralmente spacciata, anche perché può contare su un elettorato fondamentale come quello femminile. Significa però che, al di là di alcune cause strutturali, la debolezza attualmente mostrata dalla sua campagna è anche frutto di alcuni rilevanti errori. Errori che, ad appena tre settimane dal voto, sarà piuttosto difficile riuscire a correggere.

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Stefano Graziosi