L'età d'oro, sogno di un mondo diverso – La recensione
Sulle orme di Annabella Miscuglio con la sua passione per il cinema visto con lo sguardo al femminile. E con lo spirito combattivo di Laura Morante
Qualcuno per fortuna s’è ricordato, a tredici anni dalla scomparsa, di Annabella Miscuglio. È Emanuela Piovano, regista de L’età d’oro (dal 7 aprile al cinema), insieme con Francesca Romana Massaro e Silvana Silvestri autrici del libro omonimo - dal quale il film è tratto - e della sceneggiatura, alla stesura della quale ha partecipato anche Gualtiero Rosella oltre Piovano stessa.
Un ricordo semplice e complesso al medesimo tempo. Semplice perché generoso e lineare sui tratti prevalenti di una figura con valori manifesti, passioni decise, modelli ideologici definiti; complesso per la necessaria densità di una costruzione cinematografica che rendesse la totalità del personaggio senza inciampare sui modi di un banale biografismo.
Uno spirito tenace
La storia di Annabella si trasforma così, in assonanza nominale, con quella di Arabella (Laura Morante), chiamata ad evocarne i tratti compositi e la propensione battagliera nelle profondità pugliesi di Monopoli. Dove la protagonista, meglio, il suo spirito irrequieto e tenace, difende oltre la morte la sua “creatura”, quell’arena-cineclub chiamata proprio L’età d’oro che suo figlio Sid (Dil Gabriele Dell'Aiera), obbligato dai destini di sua madre ad arrivare da Torino, vorrebbe vendere, concludendone la romantica esperienza.
Eccola, Arabella, circondata dai suoi uomini, il figlio e i compagni della sua vita, Jean (Gigio Alberti), il più prossimo, Bruno (Giulio Scarpati), venuto anche lui da lontano; le donne – Vera (Eugenia Costantini), Rosaria (Giselda Volodi) - che l’hanno seguita nel suo febbrile intraprendere; perfino il critico”vero” (Adriano Aprà).
L’emozione collettiva
Dialoghi, fantasmi, memoria. Il confronto più serrato di Arabella è col figlio che non l’ha mai capita e non ha condiviso i suoi impegni. Troppo diversi erano l’uno dall’altra. Mai, però, è tardi per comprendere la vera natura di una madre. E Sid, davanti a quell’entusiasmo che ancora sopravvive, alle luci eroiche di quell’arena dalla miracolosa capacità di concepire (ancora) l’emozione collettiva, coglie finalmente il senso di tutta una vita.
Annabella Miscuglio aveva, per così dire, illuminato con certe sue intuizioni il cinema degli anni Settanta. Era stata tra i fondatori del Filmstudio, aveva inventato Kinomata, il bel festival al femminile che chiamava a raccolta le registe di tutto il mondo riflettendo sulla loro creatività, aveva girato film, documentari, aveva denunciato ed era stata denunciata, tra battaglie femministe, militanza cinematografica, attivismo d’avanguardia artistica. Insomma, figura d’altri tempi. Soprattutto di “quei” tempi.
Nostalgia e malinconia
Il film, per la verità, più che rievocare battaglie, dibattiti e “scandali” intellettuali, diventa un viaggio dai toni delicati e sommessi sulle orme una donna inquieta e incoercibile, le sue ragioni, i suoi sentimenti. Ci sono, insieme, nostalgia, gioia e malinconia in quel cineclub pugliese che vive sugli stessi valori che appartenevano al Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore o alla remota sala di Im Lauf der Zeit di Wenders. Una ballata sullo scorrere perduto della pellicola nel tempo che va.
L’attrice ideale
Così l’arena di Annabella assume contorni simbolici, dalla condensa dei sogni e dell’emozione collettiva del cinema “per immaginare un mondo diverso” alla sintesi di un confitto generazionale riepilogato in quello tra madre e figlio. Il risultato è un’opera intimista, fatta di sguardi e gestualità, priva di enfasi , non celebrativa. Laura Morante ne è l’interprete ideale e febbrile, nella misura, nel fervore e nell’espressione radiante che le appartengono. Attorno a lei la recitazione calda di Alberti e Scarpati, quella partecipatissima di Costantini e Volodi.