Gobetti: «Condanniamo le foibe e riconosciamo i crimini fascisti in Jugoslavia»
Intervista allo storico Eric Gobetti, autore del libro E allora le foibe?
«Giusto ricordare le foibe, ma anche l'Italia dovrebbe assumersi le sue responsabilità storiche». Non si fa spaventare dalle minacce, Eric Gobetti. Prima ancora dell'uscita del suo libro sulle foibe, il 15 gennaio scorso, lo storico torinese, 48 anni, era stato subissato di ingiurie e intimidazioni, che avevano coinvolto persino i suoi figli. Pubblicato da Laterza, il saggio è un pamphlet di 116 pagine (13 euro). Un'attenta ricostruzione storica, con un titolo provocatorio: E allora le foibe? A ispirare l'autore, il personaggio interpretato da Caterina Guzzanti in una trasmissione tv di qualche anno fa, Viki-di-Casa-Pound, che ripeteva questa domanda in modo ossessivo e accusatorio. Gobetti si definisce storico free-lance perché, pur avendo due dottorati di ricerca, non è uno storico accademico. Eppure è molto stimato in ambito universitaro. Alle prime aggressioni verbali, le caselle mail dei membri della Sissco, la Società italiana degli storici contemporaneisti, si sono intasate con centinaia di messaggi di solidarietà. In difesa di Gobetti e della libertà di ricerca storica, si sono poi moltiplicati appelli e petizioni. Panorama lo ha intervistato, chiedendogli conto di tutti i rilievi che gli sono stati mossi: dal negazionismo al riduzionismo, dalla foto con il pugno chiuso a un volgare post su Giorgia Meloni.
Perché ha scritto questo libro?
«Per due ragioni. Una di tipo professionale: mi sono reso conto che il discorso pubblico su queste vicende è molto semplificato ed è sbagliato, perché usa cifre e terminologie che gli studiosi non riconoscono. I risultati della ricerca scientifica vanno in un'altra direzione, ormai coincidente».
Ricerca scientifica fatta da chi?
«Bisogna distinguere fra opinioni e interpretazioni. Le opinioni possono essere basate su pregiudizi o su qualunque cosa. Le interpretazioni, invece, sono quelle fatte dagli studiosi basandosi su fonti, documenti e ricerca. La mia, ovviamente, non è la verità assoluta: è un'interpretazione sulla base delle ricerche di moltissimi colleghi. Il mio riferimento principale, come si vede dalla bibliografia, sono il professor Raoul Pupo e gli studiosi dell'Istituto storico di Trieste, i più avanzati e i più riconosciuti. Oltre che i più moderati: il professor Pupo è stato segretario provinciale della Democrazia cristiana a Trieste negli anni Ottanta».
Non un pericoloso comunista.
«Non ci sono pericolosi comunisti citati nel mio libro. Ovviamente ho letto ricerche di varie prospettive, ma sostanzialmente tutte coincidono sui dati di fatto: che cosa è successo, quante sono le vittime, quali erano gli obiettivi degli jugoslavi».
Il secondo motivo per cui ha scritto il libro?
«È un po' più complesso e ha a che fare con il mio essere cittadino. Io credo che sia dovere degli intellettuali discutere il modo in cui le storie vengono raccontate perché creano l'immaginario e contribuiscono a creare la società in cui viviamo. In questo caso, la narrazione ha un'impronta nazionalista».
Narrazione collettiva? Si riferisce anche a Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella?
«Purtroppo sì. Tutti i telegiornali, tutti i film, tutti i politici raccontano la stessa storia. In sostanza, noi andiamo a riconoscere le nostre vittime, ma senza parlare delle altre, quelle jugoslave».
Cioè senza contestualizzare?
«Assolutamente sì. Contestualizzare non vuol dire giustificare. Se si dice che prima durante e dopo gli infoibamenti ci sono state altre violenze commesse da altre persone, non vuol dire che quindi gli infoibamenti non valgono niente: sono state violenze nel contesto di quella grande violenza che è stata la seconda guerra mondiale. Questo approccio aiuta a comprendere che cos'è accaduto. E credo che sia importante, proprio per non avere un'impronta nazionalista, che secondo me in tempi di Unione europea crea tensioni inutili con i Paesi vicini».
Intende dire che questa narrazione mina un po' i rapporti con Slovenia e Croazia?
«Sostanzialmente sì. L'altro aspetto che mi preoccupa è la strumentalizzazione della vicenda da parte della destra. Ed è ancor più grave perché capovolge i valori fondanti del nostro Paese. In pratica, il discorso fatto da quel lato politico è: "Non solo non ricordiamo le vittime di cui siamo responsabili noi, ma noi fascisti siamo stati vittime". Quindi si crea un vittimismo fascista per cui il fascismo è solo vittima e le vittime solo fasciste. In tal modo si crea l'immagine che gli esuli siano fascisti. Cosa che non è reale: gli esuli sono per antonomasia vittime innocenti: centinaia di migliaia di innocenti che hanno pagato la sconfitta dell'Italia in guerra».
Quali sono i dati su cui gli storici concordano?
«Sono tantissimi. Ma nel libro insisto su alcuni elementi che non ci sono nel dibattito pubblico. Il primo è l'italianità. È ovvio che in quelle terre c'era un'importante presenza italiana, ma c'era anche una presenza non italiana molto significativa. In alcune parti di quei territori c'era una maggioranza slava e gli italiani erano una minoranza. Quindi parlare di quelle terre come completamente italiane, ingiustamente strappate alla patria, è falso».
Anche perché italiane lo diventarono dopo la Prima guerra mondiale, in seguito a un trattato di pace.
«Esatto. Come successe nel 1947, in seguito a un altro trattato di pace, quando eravamo un Paese sconfitto anziché vincitore e perdemmo quelle terre».
L'italianità deriva dai tempi della Repubblica di Venezia. Ma la Serenissima non controllava solo le coste?
«Sì. Il concetto di italianità è molto complesso. Chiaro che l'identità nazionale è un'idea recente: non è che l'Impero romano fosse italiano... La cultura latina e italiana era presente lungo quelle coste dal tardo Medioevo e per tutta l'epoca veneziana. Sicuramente c'era una presenza importante della cultura italiana, che purtroppo oggi è andata persa. Di fatto, con la fine dell'esodo è quasi scomparsa».
Quanti italiani sono rimasti fra Slovenia e Croazia?
«La seconda questione che volevo affrontare è proprio quella delle cifre. Sui numeri gli studiosi concordano. Invece quelli che vengono utilizzati nel dibattito pubblico sono molto gonfiati. Quanti furono gli esuli? Spesso si legge che furono 350.000 italiani. Gli studiosi invece non hanno dubbi: 250.000 italiani lasciarono quelle terre. Comunque in Jugoslavia ne rimasero circa il 20%. Adesso sono circa 30.000».
E arriviamo ai numeri degli infoibati. Gli storici cosa dicono?
«Un inciso. Quando si parla di esuli, si sottolinea soprattutto l'italianità scomparsa da quelle terre, che è un dato di fatto reale ed è una vera tragedia storica su cui è giusto che l'Italia si interroghi e dia il giusto riconoscimento alle vittime. Quando invece si parla di foibe, cosa che fanno molto più spesso i partiti di destra, si sottolinea il vittimismo fascista. Ma non è vero che le vittime erano fasciste: la stragrande maggioranza erano persone normali che avevano incarichi nella pubblica amministrazione. Invece si sottolinea l'identità fascista per sottolineare l'aspetto ideologico della questione, che esiste senz'altro ma che dà anche un'altra immagine della vicenda, in qualche modo rivalutando il fascismo e condannando il comunismo».
Ma sulle foibe quali sono le cifre?
«Gli studiosi che ci hanno lavorato a lungo come il professor Pupo parlano di circa 500 vittime nel 1943 e circa 4.000 vittime nel 1945. Quindi, sommando i due fenomeni, che pure sono distinti, si può arrivare a parlare massimo di 5.000 vittime. Comunque una cifra altissima».
Che siano migliaia lo ammettono anche a destra. Non è il milione di morti citato, secondo quanto lei scrive, da Maurizio Gasparri nel 2004 e ora smentito. Ma è vero che il senatore ha sporto querela?
«A me da Gasparri non è arrivata nessuna querela. So che aveva minacciato la casa editrice, ma non mi risulta che sia passato all'azione. Come spiego nella seconda edizione del libro, adesso, a 16 anni di distanza, ha smentito la dichiarazione che secondo l'Adnkronos avrebbe fatto a Radio2 nel 2004. Io avevo visto tale dichiarazione sull'agenzia: quella era la mia fonte. La notizia era poi stata ripresa da moltissime testate, senza essere smentita. In ogni caso, il problema non è Gasparri. È che quel tipo di idea è diffusa nell'opinione pubblica. E se l'opinione pubblica pensa che nelle foibe siano morti centinaia di migliaia o addirittura milioni di italiani, ne deduce che è stato un genocidio. Invece non è stato un genocidio. Perché non c'era l'obiettivo di sterminare gli italiani».
Certo è che Paolo Mieli a La grande storia ha parlato di «migliaia, forse decine di migliaia o addirittura centinaia di migliaia» di infoibati. Oggi ha ammesso a Gad Lerner che era stata «un'iperbole».
«Su questo non ho dubbi, perché ho visto la trasmissione televisiva. La mia non è una critica ai singoli: Mieli o Gasparri sono semplicemente la rappresentazione di un sentimento pubblico sfuggito dalla realtà storica e diventato una specie di mito. È il mito della "nostra Shoah"».
Lei viene rimproverato anche di aver detto che Basovizza non era una foiba.
«Basovizza non è una foiba: è un pozzo minerario. Sul fatto che ci siano degli infoibati, purtroppo non ci sono prove. Io non nego che ci siano. Potrebbero anche esserci, ma nessuno lo sa con certezza. Sono state fatte ricerche nell'immediato dopoguerra dagli anglo-americani, sotto l'amministrazione alleata. Ma le hanno subito interrotte, dopo aver trovato pochissimi cadaveri, in gran parte di soldati tedeschi».
L'accusano anche di aver detto che le foibe spesso erano luoghi di sepoltura, perché ci venivano buttati dentro i cadaveri a fucilazione avvenuta. Una morte meno atroce, ma sempre di morte si tratta.
«Assolutamente, ma ci mancherebbe... Quello che cerco di dire con quel ragionamento è che c'è una rappresentazione volutamente "razzista" nella ricostruzione di quegli eventi, perché vuol dare l'idea che gli slavi siano particolarmente barbari e che uccidano in maniera barbara».
Ma ci furono italiani gettati vivi dentro le foibe, legati uno all'altro, vero?
«È un po' come la questione di Basovizza: non ci sono fonti certe. La maggior parte sono testimonianze di parte. In particolare quelle sulle foibe del 1943 sono state raccolte dalla propaganda nazista fra il '43 e il '45. Ciò non vuol dire che non siano vere. Intendiamoci: una testimonianza può essere vera anche se è stata raccolta da Goebbels».
La accusano di negazionismo e di riduzionismo. Come risponde?
«Sulle foibe ho scritto un libro: non nego niente. Sul riduzionismo, cito le cifre su cui gli studiosi hanno raggiunto un accordo».
Ma che siano 5.000, 8.000 o 10.000 non cambia niente.
«Non cambia niente. Basta non dire che sono milioni».
In questi giorni online circola un volgare post su Giorgia Meloni che lei ha scritto su Facebook.
«La frase incriminata sulla Meloni proviene da uno scambio scherzoso del 2018 sull'ipotesi di un nuovo governo Berlusconi. Si trattava di una citazione testuale dello stesso Silvio Berlusconi, che il 2 aprile 2009 dall'alto del suo ruolo istituzionale aveva insultato in questa maniera l'onorevole Meloni. Oggi mi dispiace di avere utilizzato questa espressione offensiva (pur riferita chiaramente all'autore, Berlusconi), che contribuisce a consolidare immagini misogine e sessiste».
Online circola anche una sua fotografia con il pugno chiuso, vestito da titino. Per questo la accusano di non essere uno storico indipendente.
«Quella foto è stata scattata credo nel 2016 da un viaggiatore a Jajce, durante uno dei viaggi storico-culturali che organizzo nell'ex Jugoslavia. Ovviamente aveva carattere ironico, ma viene usata seriamente per dimostrare che non sono serio e soprattutto che sarei tendenzioso perché filocomunista. Finora non ho risposto a queste accuse perché credo che un attacco personale di questo tipo si qualifichi da solo (parliamo di cosa scrivo, non di cosa faccio in vacanza!). Colgo l'occasione però per fare tre considerazioni».
Prego.
«Anzitutto. la "serietà" scientifica di uno studioso non si valuta in base alle sue foto private, ma su ciò che scrive e produce. In secondo luogo, non sono mai stato iscritto a nessun partito, tantomeno comunista. Ma, come tutti gli studiosi, interpreto la realtà sulla base delle mie convinzioni e della società in cui vivo. Io non ho mai fatto mistero di riconoscermi negli ideali antifascisti (i valori fondanti della nostra Repubblica) né ho problemi a dire che giudico in maniera molto critica, ma globalmente positiva, l'operato dello Stato jugoslavo nel suo complesso, dal 1945 al 1990. Per questo non vedo niente di male nel farmi fotografare davanti alla bandiera jugoslava. Ovviamente la Jugoslavia è stato un Paese autoritario, ma paragonarla alla Germania nazista è un insulto all'intelligenza umana».
Questo è certo.
«Ma c'è anche altro. L'apparente inammissibilità di quel pugno chiuso ("Cosa diremmo se uno storico della Shoah facesse il saluto romano?") deriva da una equiparazione tra foibe e Shoah e tra nazismo e comunismo jugoslavo che è inaccettabile storicamente, ma anche moralmente e politicamente».
Spieghi perché.
«Perché sono fenomeni storici diversi, con motivazioni e ragioni diverse. Da una parte c'era la volontà di sterminare un intero popolo, quello ebraico, dall'altra la volontà di repressione politica. Volontà molto criticabile, ma con una logica completamente diversa. Perché non comportava l'uccisione di milioni di persone ed era strettamente legata alla guerra. Non dimentichiamo che la Jugoslavia era stata invasa».
Dall'Italia e dalla Germania nel 1941.
«Esatto. E si difese con la proprie forze e alla fine della guerra si vendicò sui nemici politici. Ribadisco, l'obiettivo non era sterminare il popolo italiano. Era vendicarsi di quelli che riteneva responsabili delle sue sofferenze: durante la guerra la Jugoslavia ha avuto un milione di morti».
Ma lei stesso dice che molti infoibati non erano fascisti.
«Infatti. Il punto non è che i partigiani jugoslavi avessero ragione a infoibare. Per carità. Loro si scelsero gli avversari sulla base di un'adesione politica, identificando qualunque appartenente all'Esercito o alla Pubblica amministrazione come responsabili del regime. Io non giudicherei mai così oggi».
Quindi lei condanna le foibe?
«Certo. Il giudizio morale è di condanna totale, assolutamente. Ma aggiungo che, allo stesso modo, vanno condannati i crimini fascisti commessi in Jugoslavia. Io provo pietà per la vittima inerme italiana e per la vittima inerme slava».
È fuor di dubbio.
«Però lo Stato italiano non lo fa. Spiace dirlo, ma è così. Le celebrazioni in cui ricordiamo solo le nostre vittime sostanzialmente dicono che quelle degli altri non contano».
Però lo scorso 13 luglio Mattarella è andato con il presidente sloveno Borut Pahor anche sul cippo dei caduti sloveni.
«Quello è stato un gesto molto importante. Per fortuna è avvenuto. Le vittime ricordate nel cippo sono però quattro attivisti jugoslavi fucilati dai fascisti nel 1930. Quindi un altro contesto. Certo, sono vittime ma vittime attive, che lottavano contro il fascismo, non civili inermi. L'equivalente delle foibe non sono loro: sono i civili uccisi ad Arbe, nei campi di concentramento e nei rastrellamenti fascisti».
Già, il famigerato campo di concentramento di Arbe, l'attuale Rab...
«Arbe fu il peggiore campo di concentramento italiano. Fra il 1941 e il 1943, in tutto gli italiani internarono 100.000 jugoslavi e 5.000 circa vi persero la vita. Solo ad Arbe si contano 1.500 morti: tutti civili, perché i partigiani venivano fucilati, e soprattutto donne e bambini. Chiaramente non fu lo sterminio: morirono sostanzialmente di fame, sotto gli occhi degli italiani. Un fatto grave, che non viene ricordato. Quest'anno, che è l'ottantesimo anniversario dell'invasione della Jugoslavia da parte dell'Italia, mi piacerebbe che Mattarella si recasse ad Arbe. Sarebbe una vera occasione di rappacificazione internazionale fra tre Paesi. Perché Arbe si trova in Croazia, ma le vittime sono in gran parte slovene e i responsabili italiani. Allora lì Pahor potrebbe riconoscere le foibe e anche i croati potrebbero dire: "Anche noi abbiamo avuto responsabilità nelle foibe e nell'esodo"».