Foo Fighters, "Sonic Highways": la recensione
L’ottavo album della band di Seattle è un caloroso omaggio alla musica di otto città americane
Chi l’ha detto che i concept album siano solo un ricordo del passato? I Foo Fighters, reduci dal successo del precedente Wasting Light che ha vinto quattro Grammy Award, hanno dato vita, con Sonic Highways, a un disco vecchia maniera che si snoda attraverso otto canzoni, ognuna delle quali è una tappa di un viaggio nella musica americana.
Austin, Chicago, Los Angeles, Nashville, New Orleans, New York, Seattle e Washington non sono state solo fonte di ispirazione per il gruppo guidato da Dave Grohl, ma hanno rappresentato i luoghi dove ogni canzone è stata incisa, attingendo alla scena musicale locale e avvalendosi della partecipazione di artisti del luogo.
Il disco è stato svelato a poco a poco in una serie di documentari, con lo stesso titolo Sonic Highways, girati per il canale HBO.
L’album, prodotto da Butch Vig e dagli stessi Foo Fighters, è disponibile in cd e su vinile da 180 grammi, con nove copertine diverse.
Di alto livello anche il cast degli ospiti, da Gary Clark Jr a Joe Walsh, passando per Joan Jett, Rick Nielsen e Zac Brown.
Ecco le nostre impressioni sulle otto canzoni di Sonic Highways.
Something from nothing: Il primo brano dell’album è uno scrigno ricco di soprese. L’inizio è malinconico, quasi dimesso, ma è solo un espediente per rendere la canzone più elettrizzante. Il costante crescendo, i cambi di ritmo, il progressivo inserimento di strumenti fino a quattro chitarre in contemporanea rivelano un grande lavoro in studio sulla struttura della canzone. E’ rarissimo trovare, in un gruppo mainstream di oggi, un brano così curato e dinamico. Il finale è tiratissimo e arrabbiato, con Grohl che dà fondo a tutta la sua voce. Una lezione di hard rock per le giovani generazioni di musicisti.
The feast and the famine: i ritmi si mantengono alti e sono ancora più indiavolati in questa canzone che si riallaccia alle precedenti produzioni del gruppo, con un micidiale riff di chitarra e con la batteria punk di Taylor Hawkins. Non è difficile immaginare che The feast and the famine farà scattare il “pogo”(il caratteristico ballo rock) nei concerti dei Foo Fighters. Quattro minuti di pura adrenalina.
Congregation: classico rock melodico e radio friendly, con un ritornello a presa rapida che entra subito in testa. Verso la fine, una parentesi strumentale e un’epica chiusura in crescendo movimentano il pezzo, che ha tutti gli ingredienti per diventare un successo.
What did i do?/God as my witness: accattivante l’incipit solo piano e voce che lascia spazio a una godibile cavalcata elettrica, sorretta da una solida melodia rock anni Settanta e impreziosita dalla chitarra del virtuoso Gary Clark Jr. La canzone è composta da due parti, ecco il motivo del doppio titolo, entrambe di ottimo livello. Rock classico di grande qualità, che verrà apprezzato anche da un pubblico adulto.
Outside: i ritmi tornano alti, mentre la chitarra di Joe Walsh degli Eagles conferisce un sapore piacevolmente vintage al brano, come i cori tipicamente West Coast. Il solido basso di Nate Mendel è l’architrave su cui poggia l’intera canzone.
In the clear: insieme a Congregation, In the clear è il brano più radiofonico dell’album, il che non è un difetto, anzi. L’impatto sonoro del brano ricorda le trascinanti sonorità live di Bruce Springsteen e della E Street Band, veri maestri nel coniugare chitarre e fiati.
Subterranean: si apre la parte più intimista dell’album, con questa intensa power ballad dedicata a Seattle, città a cui Dave Grohl è legatissimo. In molti si aspettavano un brano con sonorità grunge, per rendere omaggio alla città dove è nato l’ultimo importante movimento rock del Novecento, ma la qualità della canzone, dove i Foo Fighters usano il fioretto al posto della sciabola, non delude. La voce di Grohl è qui rotonda, espressiva e ricca di sfumature.
I am a river: il brano che chiude l’album, per mood e sonorità, è quasi il proseguimento di Subterranean. I am a river è una power ballad evocativa e dilatata di sette minuti, con sonorità sempre più piene fino all’ epica chiusura con gli archi. Un finale maestoso.
Sonic Highways ha il pregio di durare il tempo giusto, quarantaquattro minuti, e di non annoiare mai, rendendo inutile il tasto skip. Dopo vent’anni, la band guidata da Dave Grohl ha raggiunto la piena maturità espressiva, certificata da questo album personale e ricco di colori, che conferma lo scettro di migliore rock band contemporanea nelle loro mani.
Alcuni fan non hanno apprezzato le sonorità vintage di questo progetto, che invece potrebbe accostare alla band di Seattle anche un nuovo pubblico, abituato alle grandi rock band del passato.
Sonic Highways è un album che suona moderno e classico al tempo stesso, una preziosa testimonianza che il rock, troppe volte dato per morto, è ancora vivo e vegeto.