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Giordano Tedoldi, 'Tabù' - La recensione

Enigmatico come un dipinto di Magritte, un romanzo che chiama a raccolta i nostri demoni interiori

La spirale a forma di torre di una Turritella communis, fragile conchiglia che vive sui nostri fondali, è il raffinato simbolo di un romanzo concepito da Giordano Tedoldi come una suite in cinque movimenti: Tabù. Visualizza lo scorrere senza fine (senza uno scopo?) della vita ma anche l'archetipo fusionale che ci tiene in scacco fin dalla nascita, quando con un atto di violenza il taglio del cordone ombelicale getta il neonato nel mondo separandolo dall'utero materno. È un romanzo allo stesso tempo fisico e cerebrale, dissoluto e spirituale. Congegnato, direbbe John Updike, per "frustrare tutte le più ragionevoli aspettative del lettore".

La doppia verità del simbolo

Inizia e finisce infatti come una storia di eros e thanatos ma, nel mezzo, conduce una sconvolgente ricognizione metapsicologica sull'ambivalenza dei codici affettivi. Padre, madre, bambino, figli, fratelli (parentemi); moglie, marito, amico, amante (erotemi) non si strutturano qui secondo coppie oppositive votate rispettivamente alla sopravvivenza della cultura (parentemi) e della specie (erotemi), ma si mischiano in modo sfrontato combinandosi continuamente con la nascita, la malattia e la morte, secondo equivalenze simboliche di tipo confusivo. 

Nel teatro dove Tedoldi muove sapientemente le sue pedine, riproducendo le dinamiche del sogno o forse addirittura di ogni espressività umana (secondo la tesi del linguista Hans Sperber in Imago, 1912), coesistono cioè due ordini di verità: quella reale e quella simbolica-inconscia. In Tabù è come se l'autore ci facesse vedere ogni scena da questo doppio punto di vista. Sul piano della realtà manifesta, persone ed eventi hanno una significazione immediatamente riconoscibile, pubblica, consensuale. Sull'altro piano agisce senza riserve il rimosso dalla coscienza, non solo demolendo ogni morale basata sulla separazione fra il bene e il male, l'innocenza e la colpa, ma estetizzando il fascino di sentimenti inconfessabili. 

I più scioccanti dei "simboli che lavorano dentro" sono legati alla violazione di quelle leggi non scritte della nostra specie, gli archetipi che chiamiamo tabù: l'incesto, l'endogamia, la poligamia, l'adulterio inteso qui come ratto della donna del tuo migliore amico, fino al parricidio, al cannibalismo. Ma scavando nel rimosso contemporaneo i tabù si moltiplicano. Ecco l'edonismo borghese, l'ossessione per il principio del piacere, la deriva del consumismo anche nel sesso, la bellezza sfigurata dalla malattia, la paura del tempo che divora tutto, il maschilismo in seno al genere femminile, il matrimonio come istituzione fallimentare, l'ipocrisia delle confessioni religiose, il rifugio nelle droghe, l'umiliazione dei più deboli, la sensazione di essere sbagliati senza ricordare la colpa.

Una goyesca galleria di comparse

Nella trama surrealista di Tabù, oggetti e personaggi dai contorni iperrealistici si muovono in un luogo-tempo sospeso, dal misterioso potere evocativo. Cavalli e scogliere, fiori e conchiglie, mari e fiumi, pioggia e sole: la natura partecipa agli eventi offrendo in cambio la sua bellezza già in procinto di diventare simbolo. In Tedoldi la ricomposizione degli immaginari, come l'ha definita Cristiano de Majo in Canone 2030 segnalando questo scrittore come uno dei più interessanti del panorama contemporaneo, "vaga da un incubo dechirichiano alla distopia nazista con un sottofondo di musica sinfonica". 

Dentro un'architettura dalla straordinaria densità di intarsi, caratterizzata da improvvisi cambi di inquadrature e una moltitudine di io narranti, le quasi quattrocento pagine di Tabù costituiscono una sfida alla lettura breve. Ma vale la pena arrivare alla fine, quando l'orgia narrativa comincia a intossicare come una pipata d'oppio, mentre ormai in trance ci sembra di sentire una vecchia ballata di Lou Reed e poi la voce languida di Thom Yorke sulle onde Martenot di You and Whose Army: "Stanotte cavalchiamo / cavalli fantasma". 

Duro amore, l'amore che dura

Si scoprirà quanto Tedoldi abbia osato cavalcare fantasmi, cioè accostare la corporeità erotica alla gnosi, come un laico cantore - devo essermi suggestionato parecchio - all'incrocio fra Omero, Charles Bukovski e Alessandro Manzoni. Da un lato l'atteggiamento disincantato, dissoluto, superalcolico, anticonformista verso la società e le sue convenzioni, con l'acme rappresentato da Xanadu, tempio promiscuo adibito al piacere dei sensi che come tutte le comuni, nata per "scopare liberamente", era poi finita per "sterminarsi liberamente".

Dall'altro la presenza di figure religiose battagliere, inquiete, non convenzionali, misteriosamente solidali al despota che, come l'Innominato manzoniano, dopo una vita passata a tiranneggiare gli altri comincia con ugual forza a tormentare se stesso. A un certo punto del romanzo il pallino della narrazione passa a padre Eusebio Kuhn, sacerdote cattolico della Congregazione di San Filippo Neri. Un uomo bello e combattente, ex missionario segnato da profonde malinconie e da una quotidiana emicrania di voci che fanno il verso all'idea umana di Dio. La sua crisi di identità si fonde con quella del disadattato protagonista.

Sei morto quando qualcuno ti uccide o cominci a morire molto prima, quando dall'interno un verme ti scava, un'idea ti invade, una angoscia senza nome ti spolpa "come una legione di diavoli muti"? Martiri e peccatori, assassini e benefattori, santi e dannati: è possibile, nelle relazioni umane, vedere le cose senza dicotomie, "da un punto di osservazione superiore"? Turbare lasciando tutti gli interrogativi sospesi fa parte della maestria, o se vogliamo dell'onnipotenza, del narratore. 

Giordano Tedoldi
Tabù
tunué
361 pp., 14,90 euro

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Michele Lauro