Giusta la norma salva-sport; una questione economica, sociale, sanitaria
Se non ci saranno cancellazioni a sorpresa nella manovra il Governo mette a disposizione dello sport, di tutti gli sport, 800 milioni per la loro missione educativa, medica e non solo agonistica
Lo sport italiano avrà la norma che lo aiuta ad uscire dalla crisi, inserita nella manovra di bilancio la cui ultima, a meno di smentite, riscrittura pare aver trovato l’equilibrio necessario perché lo Stato si facesse carico dei danni della pandemia sull’intero settore. Superate le resistenze e rimasti gli strepiti di chi ancora attacca utilizzando l’argomentazione del “regalo ai presidenti della Serie A” con in prima linea Renzi che sta conducendo una battaglia disperata per accreditarsi il ruolo di castiga-sprechi. E’ l’articolo 38-bis in cui si prevede che le tasse accumulate dal 2020 a oggi, frutto dei rinvii concessi in momenti in cui stop e restrizioni avevano quasi azzerato i ricavi della filiera sportiva, possano essere restituite in rate mensili per i prossimi cinque anni con una mora del 3% e, nel caso del calcio e delle altre discipline, senza sanzioni penali o sportive. Un provvedimento che obbligherà il Governo a non incassare nell’immediato diverse centinaia di milioni di euro (se ne stimano 800 milioni solo per il calcio) ma che regala ossigeno a una filiera in costante anossia. E non solo il tanto detestato pallone dei ricchi o presunti tali della Serie A, rappresentati dal numero uno della Lazio e senatore di Forza Italia, nonché vicepresidente della Commissione Bilancio e longa manus del compromesso.
Aveva garantito il neoministro dello Sport, Andrea Abodi, che non sarebbe stato fatto nessuno sconto al calcio e allo sport e così è stato. Ma allo stesso tempo si è data una risposta complessiva a un settore economico che, secondo le stime più recenti, ha generato nel 2021 96 miliardi di euro di ricavi, dato lavoro a 389mila persone e contribuito al Pil italiano per il 3,6% (Osservatorio sullo Sport System di Banca Ifis). Un treno di cui il calcio professionistico rappresenta da sempre la locomotiva con il suo miliardo e 400 milioni di euro di tasse e imposte versati nell’ultimo anno e con un sistema di mutualità che ha tenuto in piedi per decenni tutto il movimento fino ai dilettanti e il resto dello sport, finanziato dal giro d’affari generato dal massimo campionato di pallone.
Girare la testa dall’altra parte, appellarsi ai tanti errori gestionali, agli scandali e alle malversazioni che sono sotto gli occhi di tutti, non solo avrebbe aggravato la crisi pallonara ma si sarebbe scaricato su tutto il resto travolgendolo. A perderci sarebbero stati tutti, cominciando dallo Stato che dallo sport riceve un’enormità di benefici per la sua funzione sociale e di welfare. Spesso a costo zero o guadagnandoci, sfidando anche la coerenza laddove, ad esempio, alle imprese del settore è vietato fare ricorso alle partnership con l’industria del betting dalla quale lo Stato incassa ricchi dividendi ogni anno.
Da anni la Figc misura il valore sociale del calcio con un parametro economico che ne fotografa l’impatto su economia, salute e benessere sociale. Già nel 2019, prima dello tsunami del Covid, l’indice era superiore ai 3 miliardi di euro compresi 1,2 miliardi alla voce risparmi della sanità. Numeri da aggiornare considerando l’intero perimetro dello sport italiano i cui vertici già nel 2020 avevano denunciato il rischio di azzeramento a causa delle conseguenze della crisi pandemica. Erano i mesi del blocco totale delle attività, prolungato ben oltre il lockdown, delle limitazioni a stadi e palazzetti mentre altrove la vita ripartiva e dei sostegni a pioggia e a fondo perduto distribuiti un po’ ovunque (ma non alle società di calcio e non solo) all’insegna del “non si possono regalare denari ai ricchi scemi del pallone”. Che ricchi lo sono stati ma di sicuro non lo sono da tempo, come testimoniano i miliardi di euro bruciati nei bilanci della Serie A e delle leghe professionistiche dal 2020 al 2022.
Senza aiuti allora, se non le briciole, e senza aiuti adesso perché “non si può trattare lo sport diversamente dal resto dell’industria” (cosa fatta negli ultimi due anni), tutto il sistema rischiava di andare in tilt. Su questo la manovra ha preso una posizione coraggiosa, sfidando il sentimento popolare e allargando a tutti delle misure necessarie. Ora servono le riforme perché la nave smetta di imbarcare acqua. Serve lo snellimento delle procedure e la chiusura dell’epoca dei veti incrociati perché lo sport possa investire in infrastrutture (il 93% degli stadi italiani è ancora proprietà pubblica con 63 anni d’età media), dotarsi degli strumenti per camminare con le proprie gambe e continuare a rispondere alla funzione sociale che gli è riconosciuta ovunque e non solo in Italia. In fondo è la base che ha spinto l’Avvocatura generale della Corte di Giustizia dell’Unione Europea a bocciare i ribelli della Superlega: la Uefa (che gestisce il calcio europeo) è effettivamente un monopolio e un’industria che muove miliardi di euro, ma può derogare alle norme sulla concorrenza proprio in virtù della sua mission sociale. Con buona pace di chi attacca i presidenti della Serie A facendo finta di non capire che attacca tutto il sistema.