Guè Pequeno: "Sono io il padrino del rap italiano" - Intervista
Dopo il trionfale successo dell'album "Gentleman", il rapper sarà ospite di Panorama d'Italia a Milano. Il 19 ottobre alle 21, Teatro San Babila
L'Italia parla rap. Lo dicono le classifiche, con decine di artisti del genere nelle prime posizioni. Lo dice anche il boom dell'ultimo album di Gué Pequeno, Gentleman: due settimane al primo posto, otto milioni mezzo di ascolti in sette giorni su Spotify: un record assoluto. Un tempo genere di nicchia, oggi il rap è ovunque: negli spot, negli stacchetti televisivi, nel linguaggio dei comici, dei social e persino del cinema.
Di questo e molto altro parleremo nell'incontro esclusivo con il rapper durante la tappa milanese di Panorama d'Italia.
Appuntamento giovedì 19 ottobre, alle 21 presso il Teatro San Babila.
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Quello di Gue e dei suoi colleghi è il suono di una generazione (12-25 anni) che il rap lo indossa e lo parla quotidianamente e che ha tagliato per sempre i ponti, dal punto di vista musicale e dei contenuti, con i cantautori e il pop italiano vecchia maniera. Gué Pequeno, 36 anni, all'anagrafe Cosimo Fini, è la serie A del genere, il più internazionale dei rapper nostrani, oltre che uno dei simboli di questa rivoluzione. Musicale, estetica e semantica.
Celebrazione del denaro, Lamborghini, donne bellssime, sesso esplicito, lusso e gangster metropolitani: nelle sue rime c'è questo. Eppure, la sua carriera, con i Club Dogo, è iniziata nei centri sociali. Ci spiega?
In Italia c'è stato un errore storico: da noi il rap è nato abbracciato ai centri sociali. Nel resto del mondo, Europa compresa, il rap era fatto da ragazzi che volevano a tutti i costi migliorare la loro condizione, fare soldi, vestirsi bene, avere opportunità. Per chi iniziava questa avventura, come i Club Dogo, gli unici spazi agibili erano quelli. Negli anni Novanta non esistevano discoteche o club disposti ad ospitare rapper. I centri sociali erano in realtà popolati da finti alternativi, figli di industriali che tiravano cocaina e giocavano a fare i rivoluzionari. Si vendevano come libertari, ma avevano un approccio fascista, mille pregiudizi e chiusure mentali di ogni genere.
Come andò a finire?
Che dopo un po' di esibizioni non ci vollero più. La goccia che fece traboccare il vaso fu un servizio fotografico in cui venimmo immortalati con alcune pornostar. Da quel momento non ci considerarono più idonei all'ambiente. Poco male, anche perché nel frattempo la nostra popolarità cresceva giorno dopo giorno.
In Oro giallo, una delle canzoni tratte da Gentleman, prima dice «Ho un numero di tipe che tu manco in tre vite», e poi aggiunge «Ho più bitches di Gene Simmons dei Kiss», il rocker americano che nel suo curriculum vanta oltre cinquemila notti con altrettante groupie. Le daranno, come è già successo, del sessista politicamente scorretto.
In mezzo a tenti colleghi che ammettono di aver avuto tre tipe in croce, io racconto che a me è andata diversamente. Che male c'è? Non ne ho mai fatto mistero. Non sto scrivendo testi scolastici, la mia è una dimensione ludica, è spettacolo, non mi occupo di sociologia. Quel che non è chiaro a chi non conosce bene i codici di questa forma d'arte è che il rap ti permette di dire tutto quello che vuoi. Quando ero ragazzino, quello che mi ha fatto innamorare di questa musica erano i testi così crudi, realistici ed espiciti. Il rap consente un'infinita libertà di parola. Attraverso le rime passano provocazioni e immagini che danno fastidio ai bigotti di ogni genere. Spesso le strofe più sessualmente esplicite sono solo l'esplicitazione dei pensieri di milioni di ragazzi. Ci si ride sopra e tutto finisce lì. Se poi per qualcuno sono un sessista superficiale, poco importa. Sono abituato a queste cose: per anni come Club Dogo siamo stati odiati perché avevamo i vestiti di Gucci e gli orologi di lusso al polso.
Si sente il padre della nuova scena rap italiana?
Mi diverte molto di più dire il padrino, una figura che evoca un'idea di grandezza e che incute quasi timore nelle nuove generazioni che, metaforicamente parlando, devono baciare la mano. Giusto per eliminare qualsiasi fraintendimento, questa immagine nasce dalla mia viscerale passione per i gangster movie, per i noir, per l'immaginario criminale romantico da film e per i contesti metropolitani più duri. Tra le mie scoperte c'è Ghali, rapper italiano di origini tunisine. C'era bisogno di un artista così, interrazziale, moderno.
Il denaro, per lei, è un obiettivo?
Per me è assolutamente naturale volere i soldi, ma credo che questo valga per tutti. Poi c'è qualcuno che non lo può dire per non rovinare l'immagine che ha costruito con il suo pubblico. Non se se sia un atteggiamento ipocrita, ma per me non è un problema, basta che non vengano a rompermi i coglioni o a farmi la morale. Al netto di qualsiasi romanticismo, io mi sono sempre dato da fare per guadagnare tanto perché ho un tenore di vita alto da soddisfare. Per questo ho una mia linea di abbigliamento e altri business estranei alla musica. La mia scuola di riferimento sono da sempre gli artisti americani alla Jay-Z che, partendo dalla musica, hanno allargato gli orizzonti dei loro affari. Anche quando vivevo con mia madre e non ero ancora così famoso andavo tutti i giorni all'ufficio postale per spedire magliette e altri oggetti di merchandising. La musica, da sola, non basta.