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Il Conte Ugolino in un'illustrazione di H. Jenny della Divina Commedia (iStock).
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La guerra letta attraverso le poesie

  Viene da chiedersi se nel Terzo millennio ci sia ancora spazio per la sintesi e la denuncia dei poeti. O se l’arte debba farsi da parte lasciando il campo esclusivamente alla scienza. E alla polemica.

La magistratura, il giornalismo, la storia e l’arte indagano la stessa realtà in modo assai diverso. Così, a patto che ci sia onestà intellettuale, la realtà è sempre la stessa, ma il modo di interrogarla cambia e garantisce contributi differenti tra loro, tutti a loro modo essenziali.

In questi anni, e in questi mesi soprattutto, tutti hanno diritto di parola in pubblico, dal piedistallo del proprio profilo social alla presenza in televisione, o in rete. Spesso la tesi più conflittuale trova ampio spazio, mentre chi avanza faticosamente senza risposte preconfezionate fatica a portare il suo contributo perché non alza i toni, non genera scontro, non garantisce le scintille necessarie per fare di tutto uno spettacolo. In questo perimetro fatto di urla e finzione, in questa deriva comunicativa, l’arte non trova spazio e la poesia non serve a niente.

Nell’ambito artistico, la poesia è la disciplina più delicata e più chirurgica di tutte, con la sua capacità di utilizzare in maniera esatta le parole, curvandole con quello che i latini chiamavano «labor limae», vale a dire dedicandosi a quella limatura e a quell’attenzione necessarie per una comunicazione esatta, conchiusa. In ogni epoca, con ogni lingua. È così quando l’uomo si è trovato a fare i conti con un conflitto, la poesia ha dato sempre il suo contributo per la comprensione di quella realtà, tra denuncia e tentativi di trovare una via d’uscita. Una «vita nuova», come scrive Dante, e «nonostante tutto», come scrive Raymond Carver.

È accaduto nell’antica Grecia, quando Omero ha mostrato la bruttura della guerra con il terrore del figlio di Ettore, Astianatte, dinanzi al padre in armatura.

«E dicendo così, tese al figlio le braccia Ettore illustre:

ma indietro il bambino, sul petto della balia bella cintura

si piegò con un grido, atterrito all’aspetto del padre,

spaventato dal bronzo e dal cimiero chiomato» [Iliade, VI, vv. 466-469]


Sempre Omero nell’Iliade ha cantato una tematica ancora oggi non risolta e cruciale per la dignità dell’essere umano: la necessità della sepoltura dei morti attraverso lo strazio di Priamo, il vecchio padre di Ettore, disposto a tutto per riavere il corpo del figlio.

Le atrocità di cui è capace l’uomo sono trattate in profondità nel canto XXXIII dell’Inferno dantesco, quando il poeta mostra l’odio di cui è capace il conte Ugolino nei confronti di chi lo ha annientato in vita.

«Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,
parlare e lagrimar vedrai insieme». [Inf XXXIII, vv. 7-9]


La poesia del poeta fiorentino indaga i motivi che portano l’uomo a diventare bestiale e ne mostra l’aspetto ripugnante, tanto da coinvolgere anche gli innocenti, anche i figli. Odio e ira, cuore di pietra: tutto analizzato e descritto con lucidità ed esattezza affinché sia chiaro e perché non accada più.


«Io non piangëa, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?".
Perciò non lagrimai né rispuos’io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l’altro sol nel mondo uscìo». [Inf XXXIII, vv. 49-54]


La poesia si muove nella storia, e “la storia è lacrime”, scrive proprio un altro poeta, Virgilio. Ed è così fino alle tragedie del Novecento, con autori come Primo Levi, Thomas Sterne Eliot, fino ad Adam Zagajewski, per citarne solamente tre assai distanti tra loro per età ed eventi narrati, così simili per essere interpreti proprio di queste virgiliane “lacrime per gli eventi”.

Con Primo Levi la poesia mostra la possibilità che non sia un uomo colui che è ridotto a un numero da annientare.


«Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no».


T.S. Eliot ha definito invece, con la sua complessa parola poetica, che la guerra genera un mondo che è l’opposto rispetto a ciò che dovrebbe essere, e così mentre la primavera è in ogni tradizione la rinascita e la promessa di una rigenerazione, ne La Terra Desolata (o Terra Devastata, come traduce brillantemente Carmen Gallo) l’apertura è dedicata ad aprile, «il mese più crudele».

Infine Adam Zagajewski, poeta di Leopoli morto da pochi mesi, che scrisse Prova a cantare il mondo mutilato riflettendo sugli avvenimenti dell’11 settembre 2001 e che inizia così:

«Prova a cantare il mondo mutilato.
Ricorda le lunghe giornate di giugno
e le fragole, le gocce di vino rosé.
Le ortiche che metodiche ricoprivano
le case abbandonate da chi ne fu cacciato.
Devi cantare il mondo mutilato».

La poesia quindi come strumento per indagare con pazienza ed esattezza le curve della storia e dell’animo umano proprio quando l’uomo è sull’orlo del baratro. Ed è proprio lì che servono i “buoni propositi” di cui scrive Marco Balzano nel suo recentissimo “Nature Umane” (Einaudi, 2022):

«Quando passi sotto il dirupo
non serve accelerare il passo,
per non cadere sotto o scansare il masso
non ha a che fare il tempo, ne? la corsa,
e nemmeno la scadenza scritta
in miniatura sulla confezione. Tu,
tra il burrone di ortiche e la vertigine
che dà la vetta, aggiusta meglio sulle spalle
la bisaccia. Guarda dritto e basta.
In questa vigilia eterna la borraccia
è la sola cosa che va tenuta stretta».


Servono buoni propositi per sopravvivere nel mondo mutilato, servono coraggio e lucidità per trovare un senso a ciò che accade e un motivo per essere ri-generativi, nonostante tutto.

È Virgilio, il poeta di Enea, che dà vita a un eroe capace di ricostruire la propria esistenza sulle rovine della sua città, con fatica, impegno, dedizione e lo sguardo sull’altro, su un oltre che proprio la parola poetica prova a definire.

Sono rovine anche quelle su cui Eliot si «puntella» proprio cento anni fa, nel 1922, negli ultimi versi della Terra Desolata, provando a ritrovarsi dopo la devastazione della Grande Guerra.

Per dare spazio alla poesia servono pazienza, tempo e desiderio di comprendere. Per comprendere come funziona l’animo umano e cosa si nasconde nelle sue zone d’ombra servono i poeti, serve l’arte. Con buona pace del litigio a cui assisteremo questa sera in televisione che ci porterà a twittare, a condividere, a commentare e a non capire ancora un po’.

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Marcello Bramati