In guerra per amore, i due mondi del soldato Pif– La recensione
America e Italia, mafia e Sicilia. Il regista-attore-conduttore racconta con leggerezza, ironia e graffi una storia di cuore durante lo sbarco del ‘43
Sicilia 1943. Gli americani sbarcano bombardanti dall’aria e invasivi dal mare.
Con loro il soldato Arturo Giammarresi (Pif), catapultato là da New York per caso e soprattutto per amore dovendo chiedere ad un vecchio e morente padre siciliano la mano della figlia, innamorata di lui ma promessa sposa in America al rampollo di un ricca famiglia mafiosa.
In guerra per amore (in sala dal 27 ottobre), secondo film di Pif dopo il bell’esordio con La mafia uccide solo d'estate, racconta due avventure in una. Da una parte quella sentimentale e privata, dall’altra parte quella bellica e storica nel cuore della Seconda guerra mondiale. Incrociandole e impastandole in buona armonia narrativa nel soggetto scritto con Michele Astori e la sceneggiatura anche con Marco Martani.
Più per sbaglio che per scelta
Arturo, dunque. Palermitano, emigrato, fa il lavapiatti a NY, non ha un soldo ed è pazzo di Flora (Miriam Leone) e lei di lui. Di matrimonio, però, neanche a parlarne. Anzi, a parlarne si rischia, perché la ragazza, per volere di suo zio deve sposare un altro, ricco figlio di un boss cui è complicato fare sgarbi.
Per uscire dall’impasse c’è un solo modo: strappare il “sì” al padre di Flora, la volontà del quale conta ovviamente più di quella dello zio. Il problema è che quest’uomo, peraltro anziano e morente, vive in un paesino della Sicilia e ad Arturo, che non può pagarsi il viaggio per arrivare fin laggiù, non resta che partire – arruolatosi più per sbaglio che per scelta - con le truppe da sbarco americane in procinto di invadere l’Italia a cominciare proprio dall’isola, forti dell’appoggio e dei contatti influenti di Lucky Luciano, che da esiliato in America può impartire ordini ai fedelissimi della sua terra.
Il tappeto rosso di Cosa nostra
Trascinato, per così dire, dall’onda, il giovanotto innamorato con divisa ed elmetto va alla ricerca di una soluzione alla sua storia d’amore, mentre l’esercito Usa, con ben altri obiettivi, intraprende il suo percorso italiano, “facilitato” dalla mafia che per poco non gli srotola davanti un tappeto rosso.
Di qui la vicenda squaderna un’ampia diramazione, portando i soldati americani alla conquista dell’Italia, non senza aver prima pagato il debito alla mafia facendo scarcerare un gran numero di “picciotti”, molti dei quali destinati alle poltrone del potere negli anni a seguire; e il soldato Arturo – aiutato dalla bella amicizia con il tenente Philip Catelli (Andrea Di Stefano) - alla conquista della sua Flora, convincendo il padre di lei – proprio all’ultimo respiro - a concedergliela in sposa.
Buoni, cattivi e futuro nero
Semplificando molto, Pierfrancesco Diliberto in arte Pif racconta così la nascita della nuova Italia. E della sua democrazia. La quale, nel vestirsi di coppola e lupara, diventa “Cristiana” e s’identifica con Cosa nostra. Conclusioni un po’ sbrigative e senza passi intermedi, forse troppo spicciole per trasformarle in una piccola lezione di storia italiana da diffondere, com’è stato chiesto, nelle scuole.
Anche perché la traccia ideologica non è così chiara e forse rispecchia, se diamo a Pif il credito di aver studiato e approfondito a lungo la materia, il marasma di allora. Sicché sono gli americani – anche bombardieri - a liberare i mafiosi incarcerati dal fascismo, buoni e cattivi a parti invertite e futuro nero, anzi nerissimo.
Graffiare senza far male
Insomma quest’Italia nata dal caos e da un patto scellerato Pif la rivela mescolando la commedia con il genere bellico e l’intento didattico, riuscendo a formulare, nel suo stile, un film dall'aria leggera, celeste, educata, angelica, dominato in pari misura dalla tesi storico-politica e dalle ansie amorose del protagonista. Impegno sì, ma con levità, souplesse e uno spizzico di spensieratezza: a governare un racconto convenientemente calibrato in tutte le sue parti e spesso divertente nella giusta misura, recitato con grande ricchezza di toni dal suo protagonista-regista.
Graffiare senza ferire, pare esserne lo slogan. E nella felice convivenza di questi due elementi la vicenda trova coerenza, saldezza e proporzioni. Con una lacerazione, però, nel buon gusto e nella delicatezza che la governano: quel pupazzo di Mussolini, tenuto nascosto in un armadio da un nostalgico del Duce e poi gettato dalla finestra dopo un bombardamento, era proprio necessario lasciarlo appeso per i piedi – funesto, macabro, presago - a un filo stendibiancheria?