Hotel Gagarin, il film che venne dal freddo – Recensione
Simone Spada dirige un bel gruppo d’attori in una commedia girata nel gelo dell’Armenia. Per una romantica, divertita e singolare riflessione sul cinema
“La Terra vista dallo spazio è un posto bellissimo, senza barriere né confini”. 1961, parola di Yuri Gagarin dalla rotonda sovietica capsula Vostok 1. Primo cosmonauta e mito già antico. Così Hotel Gagarin (in sala dal 24 maggio, durata 93’), ufficialmente opera prima del 45enne torinese Simone Spada – ma nel 2012 va rintracciato un suo semisconosciuto Maìn, la casa della felicità – si copre nel titolo di sensazioni e di rimandi; e si scopre nei contenuti come una romantica e singolare riflessione sul cinema, tutta dall’interno, in forma di commedia ora buffa ora paradossale, digradante in favola raccontata con modi gentili e discreti invitando spesso al sorriso.
E dire che si parte proprio dal volto più ciabattone, estemporaneo e cialtrone del cinema: quello di Franco Paradiso (Tommaso Ragno) produttore improvvisato da prendi i soldi e scappa capace di illudere un manipolo di “attori e tecnici” altrettanto abborracciati e spedirli in Armenia a girare un film che mai si farà, mettendosi in tasca il gruzzolo di un fondo europeo.
Cinque reietti con tanta voglia di cambiare vita
Da Roma vengono esportati/deportati in cinque: Nicola (Giuseppe Battiston) professore di storia incompreso e autore della sceneggiatura; Elio (Claudio Amendola) operaio squattrinato; Sergio (Luca Argentero) fotografo scettico inseguito da spacciatori cui deve del denaro; Patrizia (Silvia D’Amico) prostituta presa dal marciapiedi per fare la protagonista; Valeria (Barbora Bobulova) “spalla” produttiva di Paradiso ma anche lei imbrogliata e destinata all’inferno. Tutti a loro modo reietti, ciascuno col sogno di cambiar vita.
Perché pensare a “Lo stato delle cose” di Wim Wenders
Con parecchie varianti narrative e di genere ma con una bizzarra coincidenza di dinamiche, pare di ritornare sui passi de Lo stato delle cose di Wim Wenders ai piedi del desolato albergo portoghese in riva all’oceano dove un regista in mezzo alle riprese di un film di fantascienza viene a sapere che soldi e pellicola sono finiti. Set bloccato e attesa del produttore che naturalmente è sparito. Finale drammatico e intrico “giallo-nero” con un cast pieno di sorprese illustri, da Roger Corman a Sam Fuller, perfino a Paul Getty III.
E la guerra arriva a far tutti “prigionieri” in albergo
Va perfino peggio attorno al casermone dell’Hotel Gagarin perduto tra i ghiacci. Perché le riprese neppure incominciano. Il gruppetto arriva colà trasportato su un van cigolante da Kira (Caterina Shulha), autista incinta (per davvero) e un po’ punk (per finzione scenica) che fa da guida e interprete nell’improbabile ricerca delle location. Finendo poi la corsa nell’albergo dove un’imprecisata guerra che imperversa nei dintorni costringe quel simulacro di troupe a rintanarsi per mesi, a metà strada tra il bivacco e la frustrazione con tracce di prigionìa.
Ci scappano pure l’amore e lo sfondo fiabesco
Senza che, peraltro, manchi il momento buono perché s’intreccino fra gli astanti un paio di relazioni amorose; e senza che, soprattutto, il sogno del cinema tradisca davvero le speranze di ciascuno quando gli abitanti di un vicino villaggio, attratti colà dalla notizia dell’allestimento di un set, diventano per quei naufraghi il veicolo d’una oramai insperata rivincita creativa. E per il film l’occasione di aprirsi, pure con qualche candida ingenuità, ad uno spazio fantasioso e a suo modo romantico sullo sfondo di commedia che prima vira in dramma poi in dimensione fiabesca (vi trova posto l’apparizione di Virgil, misteriosa immaginaria figura interpretata da Philippe Leroy). Sogno di un film, appunto; oppure film di un sogno fate voi. Che tra l’altro termina in gloria sulle note etereo-siderali di Un nouveau soleil degli M83.
La qualità della recitazione e la funzione della fotografia
Poi c’è la recitazione collettiva molto controllata e qualificante, mai sopra le righe nonostante le circostanze paradossali, guidata dall’umanità calda e quieta di Battiston probabilmente da indicare come protagonista della vicenda. Molto, comunque, il film deve anche alle immagini fasciate, tra gli esterni nevosi e gli interni dell’hotel, di luci, riverberi e sfumature capaci di ritagliarsi, da soli, una funzione narrativa. Senso della scelta d’un autore della fotografia con le qualità di Maurizio Calvesi; e di una sceneggiatura (scritta dallo stesso Spada insieme con Lorenzo Rossi Espagnet) che a tanto suggestiva rappresentazione spiana, per così dire, la strada.