Il prigioniero coreano di Kim Ki-Duk, le due facce simili della Corea
Film implacabile e altamente politico, mette a nudo somiglianze sconcertanti tra il Nord della dittatura e il Sud capitalista
È inesorabile Kim Ki-Duk, come lui sa essere. Il suo film Il prigioniero coreano è lì a evidenziare quella linea di frontiera che sul 38° parallelo divide le due Coree, il Nord comunista soffocato dalla dittatura e il Sud capitalista ridente democrazia. Ma accanto alle profonde differenze, il regista sudcoreano mette a nudo senza pietà somiglianze sconcertanti. Perché la ferocia delle ideologie può svilupparsi in violenze simili.
Dal 12 aprile al cinema distribuito da Tucker Film, Il prigioniero coreano è un film del 2016, presentato alla Mostra di Venezia nella sezione collaterale "Cinema in giardino". Inaccessibile in Corea del Nord ma poco gradito anche in Corea del Sud, è un'opera implacabile. Montata attorno a una messa in scena semplice e percorsa da un realismo asciutto e poco dinamico, fa scaturire senso di impotenza e tristezza strisciante. La stessa che vive il povero protagonista, il pescatore nordcoreano Nam (Ryoo Seung-bum) che, finito per un incidente nelle acque sudcoreane, si troverà a subire interrogatori sadici e asfissianti, prima da una parte del confine, poi dall'altra.
La trama: un pescatore nella rete
Le giornate di Nam Chul-woo sono semplicissime: prima sulle acque del fiume a pescare e guadagnarsi la vita, davanti al gabbiotto delle sentinelle di frontiera nordcoreane, quindi nella sua umilissima dimora, una stanza e poco più, con la moglie e la figlioletta, che dorme a due passi dai genitori abbracciata a un orsacchiotto malridotto. Un giorno sciagurato, però, la rete della barca di Nam si impiglia nell'elica e la piccola imbarcazione scivola via oltre confine. In Corea del Sud. Con suo estremo terrore.
Per niente sedotto dall'apparente affabilità e dagli agi sudcoreani, Nam vuole solo tornarsene al Nord, dalla sua famiglia. Il richiamo della possibilità di una vita migliore, nella libera e ricca Corea del Sud, non lo attrae. Le autorità sudcoreane strabuzzano gli occhi: come può un misero pescatore nordcoreano rifuggire l'Eldorado del Sud per far ritorno all'opprimente dittatura del Nord? Ma Nam deve ancor prima dimostrare di non essere una spia. È sottoposto a interrogatori pressanti e violenze psicologiche strazianti. Al Sud, laddove dovrebbe regnare la libertà.
Anche quando finalmente potrà tornarsene al di là, dovrà fare i conti con nuovi tremendi interrogatori per convincere il potere nordcoreano della propria integrità e di non essere stato infettato dal capitalismo. Un'esperienza che lo svuota e gli ruba l'anima.
Il paradosso di Nord e Sud simili
Il prigioniero coreano è un film duro e altamente politico, uno sguardo amaro che ha accenni da thriller. Kim Ki-Duk non ha paura di criticare i versanti opposti della Corea divisa, neanche la Seoul capitalista dove il povero Nam viene abbandonato e, costretto a guardarsi attorno, si muove spaesato, lui, abituato alle campagne del Nord.
"Con Il prigioniero coreano ho voluto mostrare un paradosso: guardate come sono simili Nord e Sud", ha detto il regista, poco apprezzato in patria. "Là c’è la dittatura, qui la violenza ideologica. E non si tollera che un povero pescatore del Nord, finito per caso fuor d'acqua, voglia ritornarsene a casa".
In quasi due ore di crudezze fisiche e psicologiche, c'è anche un piccolo raggio di luce. Lo rapprensenta la guardia sudcoreana (Lee Won-gun) che si occupa della protezione di Nam: un giovane dagli ideali ancora intonsi che instaura un rapporto di sincera umanità con il pescatore tormentato. È lui il simbolo della speranza di un futuro senza guerra.