La prima guerra mondiale italiana e le guerre degli altri
Tutto si può dire, dell’intervento italiano nella prima guerra mondiale, tranne che se ne capisca qualcosa. Non se ne comprendono facilmente i motivi politici e militari, non è ben chiaro come una nazione e un parlamento siano stati trascinati in un conflitto che non volevano, non si sa come ci si sia potuti gettare a cuor leggero, dopo nove mesi di conflitto europeo che avevano già fatto decine di migliaia e forse centinaia di migliaia di morti e iniziato a distruggere la prosperità e la centralità di un continente, in quel carnaio inutile; e meno di tutti si capisce come uno stato giovane e debolissimo, con una macchina statale, amministrativa e militare spesso inefficiente (e in casi non rari folle o criminale), abbia retto a una guerra mal pensata e mal condotta e sia sopravvissuto alla rotta di Caporetto, addirittura riguadagnando in breve tempo una funzionalità almeno pari a quella precedente alla disfatta - da cui comunque, specie sul medio-lungo periodo, né le forze armate né lo stato vollero imparare molto.
Quello che invece è piuttosto chiaro è perché lo sforzo bellico italiano si sia diretto, come noto rompendo un trattato e un’alleanza, verso Est e contro l’Austria-Ungheria e non, seguendo l’unica direttrice in cui il suolo italiano confinava con quello dei teorici nemici dell’Intesa, contro la Francia. La spiegazione che se ne dà di solito fa riferimento al sentimento irredentista allora vivo in Italia - oltre che ovviamente nelle terre irredente -, che richiedeva l’annessione delle zone in cui la popolazione aveva una forte e storica componente italiana: e dunque la Venezia Giulia e la Dalmazia, per essere chiari (il Sud Tirolo pagò, e paga, la sua condizione di zona germanofona sotto il “confine naturale” delle Alpi). Solo che, se uno ci pensa un attimo, lo stesso argomento valeva a maggior ragione per la Corsica e Nizza sotto amministrazione francese, le quali dal punto di vista storico e culturale (e all’epoca anche “etno-linguistico”) sono ben più chiaramente italiane. E anche analizzando la questione dal punto di vista politico, cosa che in effetti i governi italiani tendono da sempre a evitare, l’assenza di consistenti minoranze avrebbe dovuto rendere preferibile, semmai, la richiesta di un ritorno a casa delle zone passate alla Francia; magari inoltrando tale richiesta al governo francese nel momento in cui i poilus si trovavano esposti al fuoco tedesco sulla Marna.
La questione sta tutta in un’epoca e in una sensibilità. L’epoca è quella culminante degli stati-nazione borghese, quella in cui la legge e la forza ricevevano quasi lo stesso culto: e la Francia, che ha sostanzialmente inventato sia l’una che l’altra, o perlomeno il loro utilizzo nei tempi moderni, godeva di uno status conseguente; ciò che le apparteneva le apparteneva per sempre, fissato com’era nelle pratiche di uno stato brutalmente efficace nella sua smania centralizzatrice. Viceversa esisteva una sensibilità, radicata in tempi antichi e del resto non del tutto svanita ancora oggi, che voleva che i popoli slavi, i quali costituivano la maggioranza nei territori promessi all’Italia dal patto di Londra e poi effettivamente annessi, fossero poco più che tribù; e che perciò la logica conseguenza dell’inevitabile svanire dell’Impero austro-ungarico sotto cui vivevano fosse non la loro indipendenza e organizzazione statale, bensì un generale passaggio sotto le ali civilizzatrici dell’Italia.
In sostanza, l’Italia liberale soffriva di un complesso di inferiorità rispetto alla Francia, di cui troppe cose aveva ammirato e troppo a lungo per pensare anche solo di riprendersi la patria di Garibaldi o di Pasquale Paoli; ma un’uguale presunzione di superiorità la animava nei confronti del mondo slavo e balcanico visto, a seconda del grado di cinismo o imperialismo degli osservatori, come una res nullius da occupare o la placida culla di stirpi ancora da educare. Una simile idea, d’altronde, fu alla base anche della divagazione dalmata della Terza guerra d’indipendenza, quando un ammiraglio meno timido e incapace di Persano ci avrebbe forse regalato una questione orientale con cinquant’anni d’anticipo.
E fu così, in ogni modo, che l’Italia entrò in guerra nel 1915: aggredendo e rompendo un trattato, ma allo stesso tempo onestamente convinta di non aver mosso torti a nessuno, perché non c’era nessuno, in quella terra senza un popolo (un popolo civile, perlomeno), che si potesse sentire offeso. Invece, paradossalmente, fu anche resistendo tenacemente a un’avanzata italiana troppo italica e romana che i popoli slavi del Sud seppero riconoscersi e unirsi non solo in una solidarietà vaga, quella sì tribale, ma in una compagine statale, come nessuno in Italia avrebbe creduto.
Oggi il nostro Paese ricorda quella guerra - misteriosamente, il suo inizio - sventolando il tricolore: e fa bene, in molti sensi, perché quella guerra e quella vittoria, per quanto limitata e piena di ombre, furono una dimostrazione inaspettata e commovente della forza morale e dell’unità del popolo italiano, anche quando esso, in trincea e non solo, veniva sostanzialmente abbandonato o tradito dalle sue élite dirigenti. Eppure resta il fatto storico che quella guerra l’abbiamo voluta e cominciata, anche se ci sembra ancora incredibile; e che forse, nel momento in cui sventoliamo il nostro tricolore (e non al posto di), dovremmo anche chiedere ai nostri vicini orientali e nordorientali come si sentono e che ne pensano, loro, della nostra legittima visione delle guerre patrie. Se ciò che vogliamo, almeno, è un buon vicinato e uno spazio fiducioso e di pace (che potremmo chiamare Europa).