'La seconda vita' di Enrico Pedemonte - L'intervista
Il giornalista genovese ci ha parlato del suo primo romanzo, ambientato tra Italia e Stati Uniti alla fine del Novecento
Enrico Pedemonte, giornalista e saggista genovese, è da pochi giorni in libreria con il suo primo romanzo, La seconda vita (Frassinelli), un libro che, attraverso una trama sapientemente costruita e ricca di colpi di scena, ci restituisce l’immagine vivida degli ultimi decenni del Novecento a cavallo tra Italia e Stati Uniti.
Il suo romanzo non è solo ricco dal punto di vista narrativo, con una trama particolarmente articolata e avvincente, ma anche da quello psicologico, per i rapporti umani tra i protagonisti, che sono delineati in modo empatico e profondo. Può dare ai nostri lettori una breve sintesi?
“Il romanzo si svolge nello spazio di sette giorni e si sviluppa su due binari paralleli. Da una parte c’è Pietro Lamberti, uno scienziato italiano emigrato negli Stati Uniti all’inizio degli anni Settanta e finito a Los Alamos a progettare bombe atomiche, che si rifugia in un piccolo appartamento di New York per scrivere al figlio John e raccontargli i lati oscuri della sua vita. Dall’altra c’e John, giornalista, che torna a Genova per svolgere un’indagine che lo porterà a scoprire le ambiguità della vita del padre e dei suoi tre amici, che per lui erano sempre stati affettuosi zii. Quella che emerge, lentamente, è la storia di quattro amici inseparabili, delle scelte radicali da loro compiute fin dagli anni Sessanta e Settanta, e del contrasto lacerante tra gli ideali abbracciati da giovani e le loro reali esperienze di vita”.
La seconda vita è un romanzo, verrebbe da dire, “poco italiano”. Concorda? E in ogni caso, quali sono, se ci sono, i riferimenti letterari a cui si è ispirato?
“Non me ne ero reso conto mentre lo scrivevo, ma poi sono stati in molti a farmelo notare. Certo devono aver pesato gli anni vissuti negli Stati Uniti, e la mia lunga frequentazione della letteratura anglosassone, sin da giovanissimo, quando divoravo Steinbeck e Hemingway. Negli ultimi anni il mio autore di riferimento è stato l’irlandese John Banville, per le sue descrizioni minuziose e affilate, la sua capacità di mettere a fuoco la psicologia dei personaggi, l’atmosfera fosca che si respira nei suoi romanzi. Forse è stato il suo “L’Intoccabile”, la storia di una spia britannica appartenente all’alta società londinese, a spingermi a scrivere questo romanzo. Non volevo scrivere una spy story, ma descrivere le contraddizioni di una persona che la vita spinge verso itinerari impensabili”.
A noi pare che nel romanzo ci siano anche due protagonisti non umani ma “geografici”: Genova e gli Stati Uniti. Lei è genovese ed è stato per molti anni corrispondente dagli Stati Uniti, per cui la domanda è obbligatoria: c’è una componente autobiografica, nel libro?
“Sì, inutile negarlo. Qua e là emergono aneddoti della mia vita, soprattutto della mia vita americana ma non solo. Certo, una delle molle che mi hanno spinto a scrivere questo libro è stato raccontare i sentimenti contraddittori che provavo nei confronti degli Stati Uniti: l’amore verso la creatività, la libertà, l’intelligenza da cui mi sentivo circondato quando circolavo per le grandi città americane e le loro università; e il fastidio, quasi la paura, verso la parte oscura che vedevo emergere quando frequentavo le chiese evangeliche del Mid West, o magari i poligoni di tiro legati all’NRA, la National Rifle Association, in Kentucky o in Texas.”
I protagonisti del suo romanzo sono animati da una passione politica totalizzante, una dimensione psicologica ed esistenziale che tra i giovani di oggi, cresciuti in un mondo post-ideologico, sembra assolutamente scomparsa. Non da tutti i punti di vista però si tratta di un cambiamento negativo perché, per esempio, è praticamente scomparsa anche la violenza legata alla politica. Lei cosa ne pensa?
“La violenza ha assunto altre forme e si manifesta all’interno delle camere dell’eco create dalla rete, dove ciascuno plasma le proprie idee in una competizione darwiniana con quelle degli altri. Oggi l’estremismo – spesso l’odio – si manifesta lì e quello che sta provocando lo vediamo nell’evoluzione politica di molti paesi occidentali. Quello che ci riserverà il futuro non è ancora scritto ed è difficile immaginarlo”.
C’è una frase particolarmente significativa nel romanzo, riportata anche in quarta di copertina: “ricordati che non c’è una parte giusta della storia. Solo chi vince, sta dalla parte giusta.” È solo una battuta particolarmente riuscita, o racchiude, almeno in parte, il suo pensiero?
“Sono i vincenti a dettare le regole, a plasmare le visioni del mondo, a generare le idee che circolano e diventano totalizzanti. Le idee che esprimiamo sono quelle che ci vengono suggerite dall’ecologia culturale nella quale siamo immersi, e che è condizionata dal potere dominante. Naturalmente tutto ciò è soggetto a contraddizioni, per fortuna, ma resta vero nella sua generalità”.
Un’ultima domanda. Pensa che si possa dire che La seconda vita, in estrema sintesi, è un romanzo che affronta il contrasto, spesso lacerante, tra gli ideali della giovinezza e la concretezza della vita?
“In parte sì. I personaggi del libro non riescono a uscire dal sentiero che si sono scavati davanti quando erano troppo giovani. Sono sempre molto stupito quando incontro persone – moltissime persone - che si vantano delle propria coerenza con le idee abbracciate in gioventù. Invece io amo l’incoerenza, perché la realtà ci offre ogni giorni nuove informazioni utili a modificare le nostre idee sul mondo. Cambiare idea è sintomo di sanità mentale. Solo gli stupidi non cambiano idea, diceva un premio Nobel. Verissimo”.
Enrico Pedemonte, La seconda vita
Frassinelli, 2018, 266 p.