La strategia della Harris con la sinistra pro Pal è fallita
(Ansa)
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La strategia della Harris con la sinistra pro Pal è fallita

Anziché virare al centro, la vicepresidente si era spesa molto per corteggiarla e portarla dalla sua parte. Ma alla fine non c'è riuscita

Nuovi problemi per Kamala Harris. A neanche ventiquattro ore dal mancato endorsement del sindacato degli autotrasportatori, la vicepresidente si è vista rifiutare l’appoggio dell’Uncommitted National Movement: stiamo parlando di un raggruppamento della sinistra americana filopalestinese, che giudica l’amministrazione Biden-Harris come troppo favorevole a Israele. “La riluttanza della vicepresidente Harris a cambiare politica sulle armi incondizionate o anche solo a fare una chiara dichiarazione a sostegno del rispetto delle attuali leggi statunitensi e internazionali sui diritti umani ha reso impossibile per noi sostenerla”, si legge in un comunicato del movimento, che ha anche mostrato disappunto per il fatto che la candidata dem abbia accettato l’endorsement dell’ex vicepresidente americano, Dick Cheney.

Certo, il movimento si è espresso anche contro Donald Trump e altri candidati minori. Resta però il fatto che l’annuncio rappresenta un problema soprattutto per la Harris. Come detto, questo gruppo organizzato milita nell’ala sinistra del Partito democratico americano. Si tratta quindi di elettori che non avrebbero comunque mai votato un candidato del Partito repubblicano. La Harris, di contro, non può ormai permettersi defezioni a sinistra, se vuole vincere a novembre. Il rischio, per lei, è altrimenti quello di fare la fine di Hillary Clinton che, nel 2016, perse le elezioni perché una manciata di elettori di Bernie Sanders votò per Trump anziché per lei negli Stati chiave. Non solo. La Clinton si vide sfuggire, in particolare, il Wisconsin anche a causa di Jill Stein: candidata di estrema sinistra che, in quello Stato, le succhiò voti preziosi.

Del resto, la Harris ha perfettamente chiaro questo problema sin dall’inizio. Se avesse avuto coraggio e visione, avrebbe potuto cercare di porvi rimedio, sparigliando le carte e puntando al centro, per rendere irrilevante l’estrema sinistra pro Pal. Purtroppo per lei, ha invece scelto di corteggiarla, nella speranza di accattivarsi le sue simpatie. Una strategia che non solo non ha conseguito l’obiettivo sperato ma che, adesso, potrebbe crearle delle grosse difficoltà.

A luglio, la Harris, pur essendo presidente del Senato, non ha partecipato al discorso tenuto da Benjamin Netanyahu davanti alle camere riunite del Congresso americano. A inizio agosto, ha poi scelto come vice Tim Walz anziché Josh Shapiro, nonostante il secondo fosse assai più in gamba del primo. Non solo. Optando per Shapiro, la Harris avrebbe avuto quasi certamente in dote uno Stato cruciale come la Pennsylvania. Inoltre, essendo più spostato a destra, Shapiro avrebbe potuto disinnescare le critiche dei repubblicani che tendono a dipingere la vicepresidente come una marxista. Ciononostante, la Harris ha virato su Walz. E lo ha fatto proprio per non irritare i filopalestinesi, visto che Shapiro, oltre a essere ebreo, è stato anche un coraggioso critico delle proteste pro Pal negli atenei statunitensi.

Eppure, nonostante queste lusinghe, il mondo filopalestinese ha continuato ad avere un atteggiamento critico nei confronti della Harris, interrompendola spesso ai comizi e tenendo alcune manifestazioni di protesta durante la Convention democratica di Chicago dello scorso agosto. E arriviamo fino all’annuncio di poche ore fa che, come detto, è venuto a sommarsi al mancato endorsement del sindacato degli autotrasportatori: sindacato che, negli ultimi 24 anni, aveva sempre dato il proprio appoggio ai candidati presidenziali dem. Le due cose sembrano scollegate, ma lo sono soltanto in parte. Sì perché sia questo sindacato sia l’Uncommitted National Movement sono particolarmente influenti negli Stati della Rust Belt, dove la situazione elettorale appare fondamentalmente in bilico.

I pro Pal valgono circa 100.000 voti in Michigan, 60.000 in Pennsylvania e quasi 50.000 in Wisconsin. Addirittura in Georgia, quindi nella Sun Belt, questi elettori possono fare la differenza con il loro pacchetto di 6.000 voti. Ricordiamo che, nel 2020, Joe Biden vinse in Wisconsin con un vantaggio di circa 20.000 voti e, in Georgia, con uno di 10.000 voti. Prevalse poi in Pennsylvania con 80.000 voti di scarto e in Michigan con 154.000. Insomma, pur essendo una minoranza, i pro Pal dell’Uncommitted National Movement potrebbero creare dei rilevanti problemi alla candidatura della Harris: problemi che si sommerebbero ad altri nodi che la diretta interessata deve affrontare in vari Stati chiave (dalla freddezza dei cattolici in Pennsylvania a quella dei colletti blu in Michigan, Wisconsin e nella stessa Pennsylvania).

La strategia della Harris di corteggiare l’estrema sinistra filopalestinese non sembra aver funzionato. Non solo le ha rifiutato l’endorsement ma l’aver scelto Walz come vice ha reso la candidata dem più vulnerabile alle accuse di radicalismo mosse dal Partito repubblicano, col risultato che, secondo alcuni sondaggi, quasi la metà degli americani la giudica oggi “molto liberal”. La partita resta aperta, sia chiaro. Ma le difficoltà strutturali per la Harris, soprattutto nella Rust Belt, stanno aumentando.

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Stefano Graziosi